IL GIAPPONE E LE SUE TRADIZIONI: UNA STORIA DI AMORE E DEDIZIONE
Intervista a Lesley Downer, a cura di Debora Lambruschini
Intervistare Lesley Downer, affermata autrice di saggi e romanzi
di ambientazione nipponica, contribuisce a sfatare il mito-maledizione
secondo cui il più delle volte l’immagine che ci costruiamo di un autore
che abbiamo amato va a cozzare inevitabilmente con la realtà, facendoci
uscire dall’incontro un po’ frustrati e disillusi. La Downer sorprende
invece per la disponibilità e il desiderio di farci entrare nel suo
mondo alla scoperta di una passione sconfinata per la cultura nipponica,
a cui ha dedicato i suoi lavori.
Nata a Londra da madre di origini cino-canadesi, ha ben presto
scoperto l’amore per l’Asia che dopo un primo viaggio in Giappone nel
1978 si è tradotto in una passione che non si è mai esaurita.
Tra ricordi, chiarimenti e anticipazioni del prossimo libro, ci conduce così in un viaggio dentro il mistero del Sol Levante.
L’amore per l’Asia te l’hanno trasmesso i tuoi genitori, ma cos’è che ti ha colpito di più del Giappone?
Difficile sapere da dove cominciare, dato che la storia d’amore
tra me e il Giappone dura da molti anni – più di trenta! È un paese che
ci vuole del tempo a conoscere, ma più lo conosco e più mi accorgo che
c’è da scoprire.
Non avevo scelto il Giappone. Ci andai per caso da giovane e poi
ci restai, e quando ci torno adesso mi sento come a casa, come in una
seconda casa. È un paese affascinante, intrigante e sfaccettato, e più
tempo ci passo più affascinante diventa.
Di questo paese mi piacciono tante cose diverse. C’è la bellezza
fisica – i monti, i vulcani, le calde primavere, l’aspra campagna del
nord e i lussureggianti paesaggi tropicali del sud. Ci sono templi,
castelli e palazzi dove riesco a immaginarmi nell’antico Giappone, nel
Giappone prima dell’occidentalizzazione. C’è
l’immenso fascino della storia e di tutto quel che ne resta nella
cultura giapponese moderna, sia l’austera cultura zen dei samurai che
l’esuberante cultura scintoista dei festival annuali, della silografia e
dei quartieri del piacere sregolato.
La sua meravigliosa letteratura conta il primo romanzo del mondo,
la Storia di Genji, deliziose poesie che esplorano un modo diverso di
vedere il mondo, commedie fantastiche, pièces e drammi strazianti. Mi
piacciono anche il diverso uso del corpo e l’abitudine di vivere al
pianterreno. E poi le ceramiche stupefacenti, e cibi e tessuti che per
primi hanno acceso il mio interesse per il Giappone
L’Asia, e il Giappone soprattutto, sembra agli
occhi degli occidentali un luogo molto esotico e misterioso, quasi senza
tempo. Quanto resta oggi di questo mistero?
Resta molto dell’antico Giappone. Nei bellissimi templi, palazzi e
castelli di Kyoto, per esempio, è facile pensarsi in un’epoca
premoderna. Resta anche nell’arte e nella letteratura, nelle silografie,
nei kabuki e nei drammi Noh. È questo il mondo che cerco di ricreare
nei miei romanzi.
Ciò che rende misterioso il Giappone è il fatto di essere così
chiuso agli stranieri. Serve sondare molto per scendere sotto la
superficie. Il mondo delle geishe è particolarmente chiuso, e questo è
uno degli elementi che le rende così intriganti. Le geishe mantengono le
loro antiche tradizioni, delle quali vanno molto orgogliose. Per quanto
ricco o famoso tu possa essere, è impossibile entrare in una casa da
tè senza una presentazione. Il fatto che il mondo delle geishe sia così
chiuso spiega perché le sue tradizioni si sono conservate nel tempo. In
realtà però le geishe non sono fuori dal tempo. Il mondo dei cortigiani e
delle geishe è cambiato e continua a cambiare, non è sotto formalina.
Pensi che sia possibile per un occidentale comprendere questa cultura fino in fondo?
La lingua è il segreto di qualsiasi cultura. Io parlo il
giapponese, per questo mi sento come Alice con la chiave per il paese
delle meraviglie. Mi sono immersa a lungo nella cultura giapponese,
perciò ho la sensazione di saperne un bel po’. Ma rimarrò per sempre una
straniera, fuori dalla cultura, il che mi rende capace di vederla con
occhi diversi rispetto ai giapponesi. Comunque sia, credo che nessuno
desideri capire completamente tutto. Così facendo, non svanirebbe tutto
il mistero? Non posso capire completamente la cultura britannica,
tantomeno quella italiana. E poi la cultura giapponese è vasta, va dal
Giappone odierno a tutti i diversi periodi della sua storia. Non potrò
comprendere mai tutto ciò!
La figura della Geisha è considerata un simbolo
affascinante del Giappone tradizionale, eppure è generalmente fraintesa.
Perché secondo te è così difficile capire il suo ruolo?
L’immagine che abbiamo noi delle geishe ha molto poco a che
vedere con le vere geishe, e molto invece con le rappresentazioni che
l’occidente fa dell’oriente. Gli occidentali, in particolar modo gli
uomini, amano immaginarsi un meraviglioso mondo immaginario con donne
tenere e dolci, che permettono agli uomini di prendersi ciò che
vogliono, a differenza delle dure donne occidentali, emancipate e
polemiche. Opere come “Madama Butterfly” – scritta da un Italiano! –
hanno influito molto nel costruire questa immagine della geisha; senza
contare che quando le GIs americane erano a Tokyo dopo la seconda guerra
mondiale, le prostitute, sapendo che gli americani conoscevano il
termine “geisha”, dicevano “qui geishe, qui ragazze geishe” per
reclamizzare i loro servizi. A parte questo, gli occidentali non hanno
la minima idea di cosa sia una geisha. Molti di loro pensano che
qualsiasi donna giapponese, o perlomeno qualsiasi donna giapponese in
kimono, sia una geisha. In realtà, quella della geisha è una professione
assai specifica. Le due parole gei e sha significano “arte” e
“persona”. Una geisha è una “persona d’arte”, un’artista,
un’intrattenitrice, una cantante e danzatrice affine a una cantante,
ballerina, rock star, modella o attrice occidentale. Come le cantanti e
le ballerine occidentali, sono pagate abbastanza da non aver bisogno di
prostituirsi. Le più famose sono delle celebrità. Noi non supponiamo che
qualsiasi cantante o attrice italiana o britannica sia una prostituta; e
allora non lo sono nemmeno le geishe. E tuttavia, per quanto spesso
dica al mio pubblico che le geishe hanno alle spalle cinque duri anni di
apprendistato alla musica e alla danza, alla fine del mio discorso c’è
sempre un uomo (sempre un uomo, non una donna!) che si alza in piedi e
dice: “Ok, ma sono o no prostitute?” Soddisfano il sogno ad occhi aperti
dell’uomo occidentale, cioè quello di una dolce e sottomessa Madama
Butterfly orientale, e gli uomini occidentali non rinunceranno mai alla
convinzione che da qualche parte nel mondo esistano tali splendide
femmine dagli occhi di cerbiatto.
Nel tuo celebrato romanzo “Geisha” ci conduci
dentro la storia di queste figure leggendarie e del loro sospeso mondo
che tu hai avuto il privilegio di osservare di persona. È stato
difficile entrare in quell’ambiente chiuso e riservato?
Il mondo delle geishe non è affatto libero, né facile. È
delimitato dalla formalità e dal protocollo. Per entrarvi ho dovuto
imparare a capire e rispettare il modo di fare delle geishe. Ci è voluto
del tempo. È stato molto difficile. Ho dovuto sfruttare tutta la mia
conoscenza del Giappone, comportarmi a modo, essere paziente, non fare
domande ma aspettare.
Ho dovuto sfruttare tutti i miei contatti, anche. Le
presentazioni sono una parte fondamentale della società giapponese.
Sarebbe stato volgare e inutile semplicemente approcciare una geisha
senza una presentazione ottenuta da un contatto.
Mi è stato anche d’aiuto l’aver compreso il complesso rituale del
fare i regali. Alla fine ho fatto centro quando ho trovato i giusti
dolci da offrire – non i più costosi o i più conosciuti, ma quelli
acquistati da una pasticceria specifica di cui solo le geishe erano a
conoscenza. Una volta datoglielo sono stata accettata. È stato un po’
come persuadere un cervo con molta delicatezza a venire e a mangiare
dalla tua mano. In generale, è stato difficile avere a che fare con le
geishe. Mentre le casalinghe giapponesi erano molto cordiali e
desiderose d’amicizia, le geishe erano piuttosto fredde, riservate e
restavano per conto loro. Un uomo l’avrebbero accolto bene: nel mondo
delle geishe gli uomini sono clienti. Ma nei miei confronti, in quanto
donna, erano decisamente poco disponibili. È stato anche molto
dispendioso. Nel mondo delle geishe si paga già solo per varcare la
soglia, prima ancora di aver comprato da bere, e ogni drink è molto
caro.
Cosa resta di quel mondo? Può quel tipo di tradizione coesistere ancora con la modernità?
Esistono ancora all’incirca 5000 geishe, disseminate nelle
comunità geishe in tutte le città del Giappone, a preservarne le
tradizioni. Le giovani scelgono di formarsi come geishe per vari motivi.
Alcune dicono di farlo perché sono attratte dallo stile e dall’immagine
(è un po’ come diventare modelle), alcune perché vogliono studiare le
arti giapponesi tradizionali. Le geishe imparano la danza e la musica
giapponese e diventare una geisha è un po’ come entrare a far parte del
balletto Bolshoi o studiare per diventare una cantante d’opera. Certi
uomini d’affari e politici scelgono ancora di intrattenersi nelle case
da tè, e se continua questa tradizione, anche la geisha continua a
esistere.
In realtà, le geishe non sono abbastanza per far fronte alla
domanda. L’apprendistato per diventare una geisha dura cinque anni, e
mentre lo fai non vieni pagata (anche se puoi tenerti le mance) e vivi
in una casa sotto il controllo di una severissima geisha “madre”,
insomma è un po’ come stare in un collegio. Cinque anni sono tanti per
le giovani giapponesi d’oggi.
Oggi c’è una tale richiesta di geishe come accompagnatrici alle
cene d’affari e ai ricevimenti che a Tokyo gli uomini d’affari possono
prenotare una sorta di geisha chiamata furisode-san (“maniche lunghe”,
con riferimento ai kimono a manica lunga indossati dalle apprendiste
geishe e, nel passato, dalle ragazze giapponesi per indicare che erano
nubili).
Si tratta di geishe amatoriali, che non passano cinque anni a
imparare la professione e che sono molto più economiche. Ovviamente sono
inferiori alle geishe sotto tutti i punti di vista. Le loro danze sono
scadenti, i loro kimono di qualità inferiore, e per un occhio allenato è
evidente che non hanno niente a che vedere con le originali. Eppure,
questo dimostra l’entità della richiesta.
Inoltre, mentre le apprendiste geishe (maiko) portano sempre i
capelli oliati secondo lo stile maiko, al giorno d’oggi le geishe che
hanno finito l’apprendistato portano la parrucca. Quando se la tolgono e
si mettono i vestiti occidentali, diventa impossibile distinguerle
dalle altre giapponesi.
Nei suoi libri e romanzi le figure femminili occupano una posizione centrale. Donne, che a prima vista, sono fragili e sottomesse, ma poi si rivelano tenaci eroine. È questo il modello femminile che vuole comunicare ai suoi lettori?
C’è un detto giapponese: “una donna intelligente non lascia mai che un uomo sappia quanto è intelligente”. In Giappone ognuno capisce la distinzione tra il modo in cui ci si comporta e come si è veramente. Le donne giapponesi sono incredibilmente forti. Gestiscono la casa ed anche i loro mariti. Ma sanno che il miglior modo di porsi è essere femminili, non irruente e polemiche. Rigirano i loro uomini attorno le loro piccole dita come le “steel magnolias” del profondo sud americano. Immagino che anche le donne italiane ne sappiano qualcosa!
Nel periodo storico di cui scrivo, nel Giappone premoderno, le donne erano letteralmente di proprietà maschile. Gli uomini erano obbligati, per legge, a giustiziare una moglie infedele ed erano puniti se non lo facevano. Per me è stato affascinante immaginare come le donne trovassero modi per sopravvivere, esprimere se stesse e persino divertirsi in una tale cultura.
È difficile figurarsi queste eroine nella misogina cultura giapponese che siamo abituati ad immaginare. Qual è la reale situazione, oggi, di donne e mogli in Giappone?
Gli italiani che ho incontrato in Giappone mi hanno detto che Italia e Giappone sono molto simili!
Andai per la prima volta in Giappone nel 1978 e vissi nella città di Gifu. Molte donne non avevano un lavoro. I loro mariti le mantenevano ed esse si occupavano di casa e famiglia. Non vedevano molto i loro mariti, ma era un’organizzazione sociale diversa – le donne trascorrevano il tempo con i figli e altre donne, mentre i mariti socializzavano con i colleghi ed uscivano la sera in locali dove vi erano donne che conoscevano l’arte di intrattenere conversazioni.
In passato una donna era una moglie a tempo pieno, (okusan, “moglie” in giapponese, significa “l’onorevole persona in fondo alla casa”) oppure un’intrattenitrice professionista il cui lavoro era danzare, cantare e fornire conversazione e possibilmente momenti d’amore, non disponibili a casa.
Oggi il Giappone è molto più simile all’Occidente.
Nei suoi due romanzi pubblicati in Italia, “L’ultima concubina” (“The Last Concubine”) e Il “Kimono Rosso” (“The Courtesan and the Samurai”), l’ambientazione storica è ricostruita magnificamente: da dove deriva la sua scelta di inscenare le storie nel passato?
Amo il Giappone antico. Amo i film giapponesi ambientati nell’era premoderna e la letteratura di quel periodo. Amo anche i libri scritti da occidentali che visitarono il Giappone negli anni Sessanta dell’Ottocento e descrissero quel mondo sul punto di sparire. Quel particolare momento – i quindici anni dopo l’arrivo del Commodoro Perry nel 1853 che terminarono con l’abdicazione dello Shogun e la presa di potere dei Samurai del Sud sotto la figura rappresentativa dell’imperatore Meiji, è particolarmente interessante e significativo. Questo era quando il Giappone, in brevissimo tempo, balzò da una società feudale nell’età moderna. Il Giappone premoderno si era sviluppato, in gran parte, in isolamento, senza riferimenti alla realtà esterna. Si evolse in una meravigliosa e preziosa cultura – la cultura del mondo galleggiante, di cortigiane e mercanti, come rappresentato nelle xilografie, nei romanzi dell’epoca e nel teatro Kabuki. Accanto a ciò, questo era il mondo dei Samurai. Quello che mi allettò particolarmente fu la scoperta che gli Shogun avessero un harem – qualcosa che nessuno sembrò mai menzionare ed in merito a cui poco appare conosciuto.
I Vittoriani che andarono in Giappone a metà del Diciannovesimo secolo erano consapevoli che stessero ammirando una società che pochi occidentali avevano visto e che era sul punto di scomparire per sempre.
Molti scrissero libri nei quali descrissero in dettagli ciò che videro. Apprezzai la possibilità di immergermi in questo periodo e portare il lettore con me.
Scrissi per la prima volta di questo periodo in “L’ultima concubina” e fui così coinvolta dalla vicenda della fazione perdente nella guerra civile che volli guardare a fondo e scrivere di più. Feci ciò in “Kimono rosso”. Il mio nuovo libro “Across a Bridge of Dreams” è ambientato in un periodo più tardo dello stesso conflitto.
Nei suoi romanzi l’attenzione ai dettagli e agli eventi storici è davvero sorprendente. Come organizza la ricerca e la creazione del periodo storico intorno alla vicenda?
La mia ricerca, in realtà, è iniziata molti anni fa, quando andai in Giappone per la prima volta. Mi assorsi completamente nella cultura e nella storia giapponese e fui in grado di analizzare diversi aspetti poiché mi servii dei vari libri non di narrativa che ho scritto. Scrivere narrativa fu per me una grande opportunità per immergermi nel Giappone del Diciannovesimo secolo e per fare uso di un po’ di conoscenze accumulate.
Voglio rendere le mie storie il più autentiche possibile, pertanto trascorro molto tempo a studiare vestiti, costruzioni, cibi, profumi e mezzi di trasporto. La cosa più importante è cercare di immaginare me stessa nel modo in cui la gente dell’epoca avrebbe pensato e si sarebbe comportata. Mi tuffo in libri scritti durante e circa il periodo, film, spettacoli di teatro Kabuki, xilografie e vecchie fotografie. Quando scrivo ci sono libri sparsi ovunque intorno a me sul pavimento!
Così come le Geishe e le concubine, la figura del Samurai è una costante nei suoi libri. Che cosa l’attrae di questi guerrieri?
I Samurai erano una presenza fondamentale nel Diciannovesimo secolo, il periodo del quale scrivo. Le trovo figure molto romantiche – la loro audacia, la loro devozione all’onore e agli ideali come la lealtà o la vendetta, la loro prontezza a morire per ciò in cui credevano. Erano molto simili agli antichi Greci e Romani o i soldati di oggi – una società di uomini concentrata su questioni maschili e per i quali le donne ricoprivano solo un ruolo secondario.
Secondo alcuni critici, il romanzo “Memorie di una Geisha” (leggi le recensioni) rivelò agli occidentali parte del mistero della cultura giapponese, contribuendo al risveglio dell’interesse e del desiderio di scoprire quel mondo. Sente un debito di gratitudine verso A. Golden?
“Memorie di una Geisha” è certamente un libro magnifico e risvegliò negli occidentali un interesse in quell’aspetto romantico della cultura giapponese, quindi, sì, sento un debito di gratitudine. Negli anni l’interesse in diversi aspetti del Giappone è cresciuto e calato. Negli anni Ottanta gli occidentali pensavano il Giappone come un paese di uomini d’affari dove si potevano fare soldi e molte persone volevano imparare il “business giapponese”. Oggi quell’immagine è cambiata. La gente si interessa ai manga e agli anime. Ma c’è anche un duraturo interesse nella straordinaria cultura giapponese e ciò è stato favorito, sicuramente, da “Memorie di una Geisha”.
So che sta lavorando ad un nuovo libro. Ci può dire qualcosa? Sarà un’opera narrativa oppure no?
Il mio nuovo libro è un’opera narrativa intitolata “Across a Bridge of Dreams”. È una storia alla Romeo e Giulietta ambientata nel Giappone del tardo Diciannovesimo secolo al tempo della Ribellione di Satsuma nel 1877. I miei protagonisti sono una giovane donna di un clan ed un giovane uomo di un clan rivale. Uscirà in Inghilterra nel giugno del 2012 ed in Italia probabilmente nel tardo 2012 o nel 2013.
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Intervista a cura di Debora Lambruschini
Traduzione di Davide Castiglione e Martina Pagano