di Luciano Funetta
Tenue, 2015
pp. 184
euro 9.90
Esordire deriva dal latino exordire, composto di ex-
(di, da) e ordiri (principiare), il
quale ha la medesima radice di oriri
(sorgere, nascere). Il verbo exordire,
prima del 1321, significava ‘cominciare a tessere’. Il testo è un tessuto: e
con il tessuto si fanno gli abiti. Questi possono essere semplicissimi o
elaboratissimi; possono piacere o meno; possono essere cuciti con maestria
perfetta, usando colori cupi e stridenti, ma riuscendo meravigliosi. Questo è
il caso del romanzo di esordio di Luciano Funetta, Dalle rovine.
Un’opera gotica, che si muove tra allucinazione, incubo,
tenebre e luci artificiali. Un abisso popolato da figure che si muovono
nell’ombra tutto il giorno, tutti i giorni.
Un romanzo che si dilata non nella struttura o nel periodare,
bensì nel contenuto, sempre controllato, tuttavia, dal deus ex machina di un narratore che sa, perché testimone.
Scegliendo di affidare il racconto al ‘noi’, Funetta
coinvolge sia l’io sia l’altro in una pluralità necessaria per raccontare un
argomento così complesso e sfaccettato, al limite del lecito e del dicibile.
Questo contenuto ipnotico, magmatico e allucinato è tenuto
sempre “sotto scacco” dalla nettezza e dall’equilibrio di una prosa ordinata e
pulita, scevra di orpelli, che non necessità di altro, se non di sé stessa.
Come i serpenti, anche Funetta scivola e striscia
all’interno della propria creatività, non vomitata o rigettata, bensì ragionata
e intelligente. Manca ogni tipo di eccesso, qualitativo o quantitativo, perché Dalle rovine non ne ha bisogno, essendo
già in nuce un eccesso.
La misura del racconto, frequentata dall’autore in
precedenza, si erge prepotente nella cura del dettaglio, che è una
micro-narrazione di per sé, un bozzetto, una scena resa in modo concluso e
finito, ma congiunto inestricabilmente con la trama, il tessuto appunto.
Dalle rovine è
avvolto dalle tenebre, raramente vede la luce naturale, perché non ne ha
bisogno, in fondo: anche il lato oscuro merita l’arte. Un libro che non è una ruina, non implode, perché, in fondo,
non finisce mai, aperto, antinomico e prospettico. Paragonabile, sotto certi
aspetti, alla personalità di Cesare Lombroso.
È un’opera che pone delle domande, che spinge a indagare e a
chiedere qualcosa di più al dicibile e al pensabile, al lecito, forzandolo
verso il limite. Ogni consequenzialità è fittizia e fallace, alla mercé di un
estro che non permette al tempo e allo spazio di dilatarsi nella logica, ma li
dispiega, a proprio piacimento, nell’illogico che alberga nell’ombra.
Le rovine presuppongono un qualcosa di integro che è stato distrutto,
solitamente con violenza. Il sintagma “dalle rovine” indica, quindi, qualcosa
che nasce dalla demolizione: il titolo mette in scena un’assenza, di una
specificazione soprattutto, presentandosi mutilo, sia linguisticamente sia
logicamente.
È per questa ragione che Funetta catapulta tutti – lettore,
narratori, protagonisti, tempo, spazio – in un baratro di indizi e di
supposizioni.
Il primo punto di sfasamento, che fa girare la testa e
costringe a guardare le pareti e il pavimento in continuazione, nella costante
ricerca di fuggire alla claustrofobia, è la realtà in cui si muove il romanzo. Una
sorta di limbo tra il realismo e l’onirico? Una dimensione tutta mentale,
quindi introiettata e restituita con tutti i filtri dall’io all’esterno? Non è
possibile dare una risposta, data l’estrema soggettività della risposta:
l’opera di Funetta, infatti, è endofasica.
L’autore non ama il cerchio, è chiaro: questa figura
geometrica, infatti, gli imporrebbe un tutto che torna, quindi un movimento
vacuo e un punto di vista univoco, immobile.
Prendendo in prestito una celebre definizione che Alberto
Savinio dà di sé stesso, anche Luciano Funetta potrebbe essere annoverato fra
gli scrittori dilettanti, ovvero un artista che ricerca e dice l’essenziale,
risultando acuto e penetrante nel surrealismo del reale.
Dalle rovine è,
quindi, un romanzo nevrastenico, affetto da ingiustificata mobilità dei corpi e
delle menti, degli spazi e dei tempi: eppure la penna dell’autore riesce, dalle
rovine, «a dare forma all’informe e coscienza all’incosciente» (Alberto
Savinio), senza farsi trascinare dalla sua creatura, ma misurandola e
centellinandola.
Luciano Funetta, scrittore ipocrita, perché guarda dal di
sotto, dagli abissi, dalle rovine, restituisce la sua verità (quella che si
aggira fra le tenebre e le ombre, che si cela e si traveste, mutando
continuamente), quella che può nascere solo dall’inganno, cogliendo, in fondo,
la natura nel suo stato più profondo, quello della follia.
Ilaria Batassa