La figlia sbagliata
di Raffaella Romagnolo
Frassinelli, 2015
pp. 170
15 euro
Aprire La figlia sbagliata di Raffaella Romagnolo, tra i
dodici candidati al Premio Strega 2016, è come sollevare il sipario su una
pièce teatrale: con poche pennellate di colore, frasi brevi ed efficaci, il
lettore-spettatore si trova di fronte alla più classica delle scene famigliari
nella provincia italiana: un uomo e una donna, marito e moglie, sono in cucina
in un sabato qualunque.
Con la tridimensionalità teatrale, ci pare di vederla,
questa moglie che lava i piatti e intanto alza il volume della tv col dito
bagnato, facendo attenzione a insaponare e asciugare ogni superficie del piano
cottura e buttando contemporaneamente un occhio al programma tipico del sabato
sera, quello dove vip e star più o meno famose si scontrano in una competizione
di ballo che fa nascere amori, intrighi e più di un pettegolezzo. Ci pare di
vederlo questo marito, al tavolo della cucina, con la Settimana Enigmistica
aperta davanti, attento più che altro alle movenze sinuose e all’avvenenza
ammiccante delle ballerine sullo schermo.
Ci pare di conoscerla (e, forse, la conosciamo davvero)
questa mamma in adorazione del figlio maschio primogenito, dei suoi muscoli e
delle sue ambizioni da vincente. Ci pare, infine, di averlo noi per babbo,
questo padre geloso del proprio figlio e in competizione con lui per ottenere
l’attenzione della moglie.
I pensieri che scorrono nelle menti di Ines e Pietro sono
quanto di più banale possa immaginarsi, sono esattamente quei pensieri che
tutti noi crediamo scorrano nelle teste di una coppia di genitori ormai
anziani, dopo quarant’anni di matrimonio:
La prima cosa che ha notato di Ines, in fondo, erano le gambe. Le gambe, la vita sottile, la curva flessuosa del collo, che terminava in uno chignon setoso, morbido sulla nuca. Quarant’anni prima. Chi lo crederebbe, guardandola ora? (p. 6)
Era un uomo asciutto e muscoloso, con una gran testa di capelli castani. (…) Deciso. Capace di tirarla via dai pensieri che in quel momento le frullavano in testa. E poi alto, dritto, prestante. Chi lo crederebbe, guardandolo ora? (p. 7)
Ma, d’un tratto, un corto circuito. Il sorriso che nasce
sulle labbra, scorrendo le prime pagine de “La figlia sbagliata”, muore in
fretta quando, in un attimo, Pietro Polizzi viene stroncato da un infarto che
lo coglie di sorpresa seduto al tavolo della cucina, con la Settimana
Enigmistica tra le mani.
E quel quadro tradizionale, rassicurante, di una tranquilla
serata in famiglia si trasforma in altro. Quella scena così familiare, quella “rabbietta” che Ines prova nei
confronti delle mancanze e delle vergogne del marito, non fa più simpatia, non
è più innocua. Si trasforma, invece, in una dolorosa riflessione sul peso del
rancore, della sofferenza, delle aspettative deluse e di una piaga impossibile
da cicatrizzare.
Già, perché quando Ines si accorge che il marito è morto,
non fa quello che ci si aspetta: non chiama i soccorsi, non chiede aiuto. Va
avanti, semplicemente. Ignorando l’accaduto, aggirando il dolore.
La grande forza e la ricchezza di questo romanzo
indimenticabile è rappresentata dal suo entrare e uscire, continuamente, da
quel concetto affascinante e ipocrita di “normalità”. È normale il sabato sera di Pietro e Ines. È anormale la reazione di Ines alla morte del marito. È di nuovo
sconcertante e normale la lunga
riflessione che la donna fa sui figli, Vittorio e Riccarda, la sua adorazione
per il primogenito maschio, bello e intelligente, l’odio e la gelosia per la
sua compagna Grazia, e ancora la stizza per quella figlia così diversa dalle
aspettative. Questa commistione di normalità e straordinarietà fa sì che anche
tutto ciò che di anormale c’è in
questo racconto, come la reazione di indifferenza di Ines di fronte alla morte
di Pietro, appaia quasi comprensibile, possibile, persino coerente.
Al centro del romanzo sono tanti i temi caldi che vengono
affrontati: la famiglia, luogo di amore ma anche, spesso, di dolorose
aspettative (ne abbiamo parlato anche nella recensione al romanzo Interruzioni di Camilla Ghedini, che trovate qui); il talento, averlo o non
averlo come discriminante della possibilità di raggiungere o meno il successo;
il coraggio; la ribellione; la morte: patita, sfiorata, attraversata,
allontanata. Ognuno di questi temi scandisce i tempi della narrazione e arriva
dritto al lettore attraverso riflessioni quotidiane, episodi vicini
all’esistenza di ognuno di noi: cos’è il talento se non la capacità di Vittorio
di impegnarsi fino allo sfinimento negli allenamenti di nuoto, o l’abilità di
Riccarda di entrare a soli diciannove anni alla più prestigiosa scuola di
teatro di Milano?
Ma sopra a tutto, ci sono le aspettative, quelle di una
madre ingombrante, pervasiva, qual è Ines. Sono le sue convinzioni e la capacità
(quasi sempre deleteria) che hanno le certezze e le volontà di un genitore di
condizionare la vita di un figlio a costituire il vero nodo centrale di questo
romanzo.
Quanto pesano le aspettative di una madre?
Per qualcuno sono una corda da cui divincolarsi, un
abbraccio soffocante che stimola la più automatica delle ribellioni,
rappresentano il contrappunto da cui allontanarsi e partire per affermarsi. Come
per Riccarda.
Per altri, sono un masso che schiaccia. O uno scoglio su cui
sbattere la testa, come per Vittorio.
Per alcuni figli, le aspettative di un genitore recidono
ogni possibile iniziativa autonoma, frenano, legano, destinano. Lo sa bene
Vittorio che paga il suo unico atto di ribellione alla madre con una brutta
cicatrice sul sopracciglio sinistro.
Sullo scoglio del molo, anche Pietro Polizzi adesso è in piedi, con un colpo di polso richiama a sé la lenza e afferra al volo il pesce. (…) Dallo scoglio alto, il bambino vede il padre tenere il pesce in mano, poi chinarsi a cercare qualcosa nella borsa, un paio di pinze, e capisce. La libertà di Pietro Polizzi è come la sua. Sta dentro i confini di uno scoglio piatto. (p. 38-40)
Quella di Raffaella Romagnolo è una riflessione profonda e
dolorosa sulla natura dei rapporti umani: quelli tra madre e figlio, quelli tra
madre e figlia, tra fratello e sorella e tra marito e moglie. Una geografia,
quella dei rapporti umani, in cui lo spazio abitato dal dolore e dal rifiuto è
spesso preponderante rispetto a quello dell’accoglienza e dell’accettazione:
Nuoterà. Sarà veloce e preciso. Toccherà la boa. La smetteranno di chiamarlo finocchio. Vincerà le gare. Sarà un campione. Saranno felici. Anche papà. Mamma non farà la faccia delusa, mai più. (p. 40)
Sentirsi perennemente fuori luogo potrebbe allora essere una condizione necessaria, persino augurabile. Così come la capacità di scomparire, affinata in anni di quotidiano lavoro di opposizione e fuga, quel continuo guardarsi da fuori, e chiamarsi fuori dalle situazioni per non sentirsi esposta, la pelle scorticata dalle aspettative altrui. Quelle di Ines, certo, Ines è un bel peso per Riccarda, ma non solo. È la vita, una via crucis di aspettative, una condanna al dover-essere con fine pena mai. (p. 89)
Mai Pietro Polizzi ha provato gli slanci o gli abissi che da sempre abitano sua moglie e che lei, ostinata, tenta di restringere entro i confini di un’esistenza ordinaria. Sa che lei è, in un modo difficile da spiegare, la parte di poesia che gli spetta. Il bello della vita.Con il suo sguardo tranquillo e l'orizzonte limitato, Pietro Polizzi sa anche di essere diventato, per sua moglie, la zavorra che la tiene aggrappata alla realtà. L’ultima. (p. 112)
La figlia sbagliata ci mostra come, spesso, all’interno
delle relazioni, sia l’incapacità di guardare all’altro per ciò che è (e non per
quello che vogliamo che sia) a dar origine a un abisso di dolore in cui diventa
impossibile trovare una via di fuga, un’oasi di pace dove riposare dal peso di
sentirsi, come Riccarda, una figlia (o una moglie, una madre, una sorella…)
sbagliata.
Barbara Merendoni