Il veleno di Auschwitz. Il volto e la voce: testimonianze in TV (1963-1986)
di Primo Levi
a cura di Frediano Sessi e Stas’ Gawronski
Marsilio, 2016
pp. 54 (libro più dvd)
€ 15,00
È una scelta curiosa, ma forse l’unica realmente sensata, quella compiuta dai curatori di questo esilissimo volume edito da Marsilio: la scelta di tirarsi indietro, di rinunciare a qualsivoglia protagonismo, o ad imporre una istanza interpretativa dominante. Attraverso tre brevi saggi, viene passata sinteticamente in rassegna la storia delle apparizioni televisive di Primo Levi, ne vengono commentati i gesti e la fisicità, viene proposta una rilettura concisa e completa della sua bibliografia. Il contributo critico è dunque orientato non alla novità, ma alla revisione del già detto, in particolare del già detto da Levi stesso. È lui il vero e unico protagonista dell’opera, non soltanto nelle interviste televisive riportate nel dvd allegato, ma anche nei testi che vorrebbero introdurle e commentarle: le inferenze personali di Sessi e Gawronski sono minime, perché ciò che si vuole far emergere è la voce forte, incisiva, dell’uomo e dello scrittore Levi. Le citazioni sono ampie, diffuse, poco note e quindi tutte da scoprire o riscoprire.
Attraverso testimonianze distribuite nell’arco di un ventennio, si assiste all’evoluzione personale di Primo Levi che, da chimico ebreo e sopravvissuto all’Olocausto, diventa progressivamente più consapevole del proprio ruolo di scrittore, nonostante le persistenti difficoltà del pubblico a scindere il piano dell’opera da quello dell’esperienza biografica. Si avverte anzi, nelle sue parole, una sempre più marcata esigenza di non essere considerato semplicemente nella sua veste di testimone, ma nella sua complessità di uomo e scienziato, portatore di idee articolate sulla storia, sulla politica e sulla società. Tale percezione, suggerita dal testo, trova conferma e spazi di approfondimento nelle registrazioni Rai.
I video di Primo Levi producono sul lettore lo stesso effetto delle descrizioni che Natalia Ginzburg dà di Cesare Pavese in Lessico famigliare: uno spiazzamento legato a un improvviso e imprevisto senso di intimità, alla prospettiva obliqua su una figura che si riteneva di conoscere e si scopre in realtà radicalmente nuova e diversa. Nella prima intervista, risalente al 27 settembre 1963, Levi appare giovane, modesto, quasi timido. Pesa ogni frase, sa che le parole hanno un peso e mira dunque all’essenziale, senza farsi distrarre dalle incalzanti e un po’ moleste domande dell’interlocutore. Si mostra, con un velo di imbarazzo, irriducibile alle definizioni che l’altro vorrebbe dare di lui, applicargli addosso come etichette preconfezionate: rivendica la sua posizione di chimico, non di letterato, la natura documentaristica e non emotiva di Se questo è un uomo. La sua opera prima conta non per il messaggio che vuole trasmettere, ma “per la documentazione che comporta”. In altre occasioni successive, del resto, ritornerà su questo concetto, che gli sta particolarmente a cuore:
Prego il lettore di non andare in cerca di messaggi. È un termine che detesto perché mi mette in crisi, perché mi pone indosso panni che non sono i miei, che anzi appartengono a un tipo umano di cui diffido: il profeta, il vate, il veggente. Tale non sono; sono un uomo normale di buona memoria che è incappato in un vortice, che ne è uscito più per fortuna che per virtù, e che da allora conserva una certa curiosità per i vortici, grandi e piccoli, metaforici e materiali (14).
La scrittura nasce certo da una profonda esigenza comunicativa, la testimonianza è dovere pubblico e liberazione personale al contempo. Levi scrive e parla con la consapevolezza di chi ha scoperto sulla propria pelle l’importanza della lingua come mezzo per avere accesso alla realtà circostante: non a caso ad Auschwitz la competenza più utile è la conoscenza linguistica, o la capacità di apprendere rapidamente altri idiomi. L’esperienza del lager, ci dice in più occasioni lo scrittore, “coincideva con un crollo della comunicazione”, un “fallimento del linguaggio”. Dopo Auschwitz, le parole non hanno più lo stesso peso, lo stesso valore, lo stesso significato. L’intera carriera di Primo Levi in quanto autore ruota intorno alla necessità di ridare al discorso il giusto peso. Anche per questo, l’impressione che emerge da ogni sua apparizione pubblica è quella di un grande equilibrio. Anche nell’ultima delle sue interviste, risalente al 22 dicembre 1986 (si sarebbe suicidato l’11 aprile del 1987), a emergere dalle sue risposte è una saggezza pragmatica, pacata e piena di buonsenso, priva di squilibri. La sua fiducia nel mondo e nell’umanità pare salda, incrollabile, ed emerge accompagnata da una disarmante ingenuità: lo studioso pare realmente convinto, nonostante la sua esperienza diretta e contraria, che l’etica sia sufficiente a regolare l’agire umano, a moderare le derive della scienza, a volgere al bene invece che al male ogni ricerca. Pare davvero convinto che si porrà, in base a una logica che dovrebbe risultare evidente e condivisa, un “limite al fattibile”, laddove “è fattibile ciò che non danneggia in modo irreversibile l’ambiente intorno a noi e nell’ambiente comprendo anche l’umanità”. Primo Levi è ancora convinto, soprattutto, che “valga la pena di scommettere sull’uomo”.
Il volumetto Marsilio ha allora una virtù straordinaria, quella di cancellare di netto e irreversibilmente l’idea pregiudizievole che il lettore medio si può essere fatto su Primo Levi leggendo le sue opere memorialistiche, o studiando la sua biografia sui libri di scuola. Ci presenta uno scrittore versatile, intelligente, commovente non tanto nella sua esperienza drammatica di deportato, quanto nella sua capacità di reinventarsi a guerra finita, nella sua modestia nel farlo. Il “veleno di Auschwitz” a cui accenna il titolo, riprendendo le parole di Levi stesso, sembra essere defluito dalle sue vene, lasciando spazio a un uomo diverso, non certo schiacciato dagli eventi, ma in grado di rielaborare quanto subìto in una forma più tollerabile e di presentarsi pubblicamente alla luce di una riconquistata identità.
Carolina Pernigo