Ora che è novembre
di Josephine Johnson
Bompiani, 2016
pp. 183
€ 17,00
Titolo originale: Now in November
Traduzione di Beatrice Masini
Gli Haldmarne tornano, dopo anni trascorsi in città, alle proprietà di famiglia in campagna: si tratta di un ritorno alle origini nel senso più viscerale del termine; è un ritorno alla vita rurale, alle sue abitudini, ai suoi ritmi lenti dettati da una natura che sa essere madre e matrigna al tempo stesso. Nella nudità di un paesaggio che pare a tratti epico, a tratti drammatico, sempre comunque intenso e bellissimo, i sentimenti si radicalizzano, le tensioni si estenuano, l'ansia e la paura covano sotto la superficie come una brace pronta a divampare in incendio. Per il Padre, il tormento sotterraneo è legato a un'ipoteca che grava sulla casa come una falce sospesa: nei dieci anni che separano l'arrivo al vecchio casale dal presente narrativo, lo vediamo inasprirsi, farsi sempre più cupo di fronte all'inutilità vanità di sforzi eccessivi; vanamente la Madre media, ascolta, consola: solo lei pare immune al dolore, in grado di sostenere il peso della famiglia e della sua fragilità.
Le tre figlie crescono loro malgrado, abituandosi all'inesorabile scorrere delle stagioni, alimentandosi della vita che sentono brulicare intorno a sé, temprando corpi e spiriti attraverso la fatica e il lavoro, che finiscono per sembrare destino. La più piccola, Merle, avanza sicura, sognante:c'era qualcosa in lei, anche allora, che continuava a camminare un piede dopo l'altro lungo un sentiero diritto verso un posto definito, e desideravo allora, e ancora adesso lo desidero, che ci fosse anche in me qualcosa di pronto a marciare diritto lungo una sola strada, invece che di qua o di là, ma la mia mente batteva una rete di sentieri aggrovigliati e contorti, sempre frugati dall'ombra rapace del dubbio (16).
La secondogenita, Marget, è un io narrante lirico e vibrante. Non esente dai dubbi, si rende conto degli equilibri instabili dei rapporti parentali, delle emozioni che scorrono sottopelle, dell'incertezza economica quanto di quella cosmica. È giovane donna timida e insicura, vergognosa della propria pavidità, non bella, priva di qualità particolari, o almeno così si presenta impietosamente al lettore. Tutto il contrario rispetto a Kerrin, appena più grande, spirito irrequieto ed egoista, bellezza conturbante e inquieta:
era bella in modo oscuro e strano: la pelle bruna fredda e tesa, gli occhi selvatici da puledro[,] capelli che erano più una sorta di densa luce rossa che qualcosa di concreto (45).
Il suo carattere violento e indomabile si oppone radicalmente a quello delle due sorelle più giovani, le quali maturano grazie a un rapporto quasi osmotico con la natura che le circonda:
in quei primi anni, leggere e mangiare ed essere vive sulle colline a Merle e a me era bastato. […] Noi eravamo il lento depositarsi dei giorni, eravamo fatte, come le isole coralline, di innumerevoli frammenti. L'aria della sera tra la stufa e il pozzo là fuori... il rumore del vento che scuoteva i telai delle finestre ululando... la polpa dei chicchi di pannocchia... […] la presenza reciproca e un avido amore di esserci, della vita, e di sapere che c'era un domani e Dio sa quanti altri domani, ciascuno una vita, ciascuno bastante in se stesso… L'ombra delle foglie, e la foglia stessa, ci arricchivano… Le onde blu che attraversavano la neve, l'urlo rantolante del martin pescatore anche quando i torrenti erano gelati. [...] erano parte di noi quanto la vista dei sicomori bianchi come ossi protesi contro il cielo, o le nuvole spinte come vapore sulle cime (47).
Ad alterare una situazione già precaria contribuiscono in modo irreparabile una lunga siccità a l'arrivo di un nuovo bracciante. Uomo integro, dai sorrisi rari ma travolgenti, Grant irrompe nella solitudine della famiglia come elemento perturbante, in grado di spiazzare ogni equilibrio. L'amore coglie le ragazze in modi diversi e imprevedibili, mentre la campagna viene colpita da una serie di piccole sventure che tardano ad essere percepite come tali. Lo scorrere delle pagine si accompagna al trascorrere delle stagioni e alla crescita di un gravoso senso di ineluttabilità: una qualche tragedia incombe, resta solo in sospeso fino all'ultimo quale sia. È la follia a travolgere la pianura, estremizzata dal caldo torrido e dalla morte dilagante. L'unica a resistere è Merle, che lotta e si ribella, ostinatamente attaccata alla vita, rimanendo "la sola cosa chiara e nitida in quella sporca foschia polverosa" (145):
"Non vale la pena di arrabbiarsi" disse Grant. "Non puoi odiare il mondo e restare sana di mente." "Sì che posso," gli rispose Merle. "Posso odiare la gente, la calura, l'egoismo, e questa polvere maledetta da Dio, e i contadini che non danno da mangiare neanche ai cani e non sanno come nutrire i figli, i pidocchi, e quelli come te che stanno lì a ciondolare dicendo che è inutile tentare! Posso odiare praticamente tutto senza per questo voler morire!" (…) gli disse che conta solo l'odio che fa rumore, l'odio che si accende nell'azione. "Si può essere arrabbiati e furiosi dentro," gli disse, "ma se non viene fuori niente tanto vale amare ciò che si odia!" (144).
Se in primavera qualche equilibrio era ancora possibile, durante la lunga, torrida estate tutto si sbilancia, si fa incerto. Merle è incarnazione della lotta che quotidianamente bisogna combattere per la sopravvivenza, contro gli elementi, contro il fato avverso, contro la propria stessa tendenza alla resa. Al contrario, chi non ha altrettanta forza finisce per essere schiacciato, per dissolversi in cenere come le foglie secche: il dramma interiore della narratrice passa in secondo piano rispetto alle pressioni esterne, il suo autocontrollo e la sua paura di abbandonarsi ai sentimenti la relegano in un angolo, la costringono al ruolo di testimone, non di protagonista della storia che va narrando. Quando tutto è bruciato, non resta che il vuoto:
una volta pensavo che ci fossero parole per tutte le cose tranne l'amore e la bellezza è insopportabile. Ora so che c'è una terza cosa che non si sa come esprimere: il senso di perdita. Non ci sono parole per la morte (175).
Con parole sferzanti, e con un incipit e una conclusione di rara potenza, Josephine Johnson conduce una narrazione che pare inesorabile come la storia stessa. L'umiltà dell'uomo calato in una realtà che lo sovrasta si concilia meravigliosamente con l'ampio respiro, con il ritmo epico del racconto. È una battaglia disperata, quella che ha luogo nel romanzo, destinata a concludersi con la sconfitta umana. Ma viene combattuta fino alla fine, e la caduta è piena di dignità. La pioggia, quando arriva, non basta a lavar via il dolore, ma sicuramente restituisce profumo all'aria, colore alla campagna, e ai protagonisti il coraggio di mettere un piede davanti all'altro per qualche tempo ancora.
Carolina Pernigo