di Mussie Zerai con Giuseppe Carrisi
Giunti, 2017
€ 16,00
pp. 224
"La legalità è un insieme di leggi costituite, ma quanta giustizia ci sta dentro? (...)
Non tutto ciò che è legale è giusto. Siate procuratori, promotori di giustizia, non custodi di una legalità fatta di muri, filo spinato o di una legalità che criminalizza il diverso, che lo priva della sua dignità di persona".
Lasciamo perdere il titolo del libro, che magari non vi suonerà familiare. E pure il sottotitolo, che non vi dirà nulla di quello che troverete nella storia di Abba Mussie Zerai. Ho scelto di partire dalla fine, dal messaggio/missione che anima tutta la storia: andare oltre le regole che criminalizzano la condotta di chi entra in uno Stato in modo irregolare. Superare pure, aggiungo, un certo modo di pensare che fa del migrante un nemico, venuto a rubare casa-lavoro-donne-serenità. Riscoprire al di sotto di questa sovrastruttura la Persona, in chi fugge e in chi arriva, per riscoprire l'umanità anche in noi stessi.
Quando la sua storia inizia, don Zerai è un sacerdote che non può spegnere il telefono nemmeno di notte: ogni chiamata che perde può costare decine, centinaia di vite umane. Perché don Zerai è diventato il punto di riferimento di una massa infinita di disperati: sono le migliaia di uomini donne e bambini che attraversano il deserto, e poi il lago sterminato del Mediterraneo, per arrivare (nella terra promessa, in Europa) ma soprattutto per fuggire (dall’inferno di miseria e violenza in cui vivono). O chi il viaggio l’ha già fatto, e cerca attraverso Padre Mosè di conoscere la sorte dei suoi cari partiti alla volta dell’Europa. Queste persone sono accomunate dal colore della pelle e dallo stato di incertezza che domina la loro vita. In qualche modo, chiamano tutti lui.
Ma non tanto su questo si sofferma don Zerai. Di storie di viaggi e di morti ne abbiamo lette, sentite, viste fin troppe. Ci fanno ancora effetto? Probabilmente no. Forse vale la pena di scoprire cosa succede all’arrivo in Europa; il mare di marginalizzazione e indifferenza in cui molti rischiano di annegare, rimanendo per sempre condannati alla ghettizzazione, quando non alla clandestinità. È questa la realtà narrata da don Zerai, che ha visto e vissuto la status di migrante e di richiedente asilo in Italia. Un limbo di incertezza, prima; poi, se la domanda è accolta, “un vuoto enorme”, “una totale mancanza di prospettive. Una vita di emarginazione”.
Facciamo un passo indietro: a quando Padre Mosè era semplicemente Mussie, un ragazzetto eritreo legatissimo ai nonni e innamorato della sua città, Asmara. La bella capitale, tanto simile a Roma, con i suoi edifici art deco o di stile fascista, i cinema e i portici in stile liberty. “Quanto sei bella Asmara” scrive Mussie a 40 anni, 25 anni dopo aver salutato per sempre il suo Paese, con i suoi indimenticabili profumi e paesaggi. Don Zerai a Roma è arrivato in aereo, è perfettamente integrato eppure si strugge ancora per la sua terra. I suoi connazionali non sono stati fortunati come lui; hanno sofferto di tutto per arrivare in Italia, ma cosa vi hanno trovato? Qualche squalo disposto a far business sui centri di accoglienza, mentre il governo di Roma mostra “la faccia cattiva per impedire nuovi sbarchi”. La cosa più affascinante è che questa attualissima frase non si riferisce alla Libia né alla Siria, ma ai flussi di albanesi. Agosto 1991.
Se vi suona familiare è perché in 25 anni, dice in sostanza don Zerai, non è cambiato nulla. È stato così anche per la chiusura della rotta libica ai tempi di Gheddafi, quando si è ugualmente cercato di affrontare un problema epocale ergendo dei muri di carta. In quell’occasione, i migranti non si sono fermati, ma hanno trovato un’altra rotta, più rischiosa ancora, più costosa. Non potevano non farlo.
Per risolvere l’attuale crisi migratoria, l'Europa stringe accordi con la Turchia. Da ultimo si annuncia un nuovo, simile accordo con la Libia, per proteggere l’Italia. Il punto è che sono strategie che non funzionano: nuove rotte si apriranno, al prezzo di sacrifici per entrambe le parti in causa. Chi subisce queste chiusure rischia la dignità nelle mani dei trafficanti, quando non la vita; e pure chi le attua rinuncia a qualcosa, abdica alla sua umanità.
C’è un’alternativa? Secondo don Zerai sì, tanto che alla fine del libro stila una sorta di “decalogo” dell’accoglienza (che comprende rimpatri assistiti, relocation e resettlement attuati con sistematicità). Che lo si condivida o meno, è un punto di vista in più, che, se non altro, pone l’accento sull’importanza di condividere le strategie di accoglienza con chi conosce la situazione in prima persona.
Francesca Romana Genoviva