Sulla riva dell'epoca


Sulla riva dell'epoca
di Gianni D'Elia
Torino, Einaudi, 2000

La raccolta, edita nel 2000 per la collana ‘bianca’ di Einaudi, contiene ottantuno componimenti in terzine, non numerati. Come lo stesso autore confessa in una conversazione poetica con Francesco Napoli, è la stessa biografia tragica ad essere entrata prepotentemente nell’opera: la morte per Aids dell’amata sorella Lina nel 1996 e il «sentimento della scomparsa» determinano uno dei temi privati più ricorrenti. Proprio da questa disgrazia, mai apertamente spiegata, si muovono domande sull’esistenza e sulla fine della vita, ricorrendo spesso a metafore relative al mare. Si pensi del resto al titolo, concentrato sull’idea di limine e di confine, nonché sul concetto del tempus ruit.
Non bisogna tuttavia pensare che un autore impegnato socialmente e politicamente schierato quale D’Elia abbia abbandonato qui la poesia pubblica e collettiva: al contrario, si trova un marxismo problematico, post-pasoliniano, sulla linea del «realismo critico» inaugurato da «Officina», nonché è forte l’invettiva contro il contemporaneo comunismo passivo e utopistico. Sono violente le critiche nei confronti delle nuove generazioni, politicamente amorfe e disimpegnate, come del resto gli esponenti della classe borghese diventano spesso oggetto di osservazione, se non di denuncia.
A questi già importanti nuclei tematici, si aggiungono i rimandi metaletterari: oltre ad omaggi più o meno dichiarati, sono frequenti le riflessioni sul labor limae e anche sul ruolo della poesia oggigiorno.
Tutto questo multiforme, complesso e frantumato mondo non viene però affrontato in modo risolutivo, ma le problematiche vengono esposte: a volte intere poesie sono domande irrisolte e irrisolvibili (si vedano i numerosissimi componimenti che terminano con una domanda), altre volte finiscono con reticenze (segnalate graficamente da puntini di sospensione), che rimandano la discussione a un successivo componimento o alludono all’ineffabilità. E alla reticenza o alla domanda si giunge attraverso periodi sintattici sapientemente articolati, talvolta della lunghezza dell’intera poesia, talvolta scompaginati in iperbati e anastrofi. È dunque inevitabile che la lettura venga interrotta da pause brevi – soprattutto virgole, localizzate frequentemente a fine verso, con più parsimonia all’interno –, che portano ad una scansione talvolta sincopata, a tratti angosciosa, verso un finale che è spesso non-finale.

Il lessico: il letterario e l’impoetico
Alla sintassi complessa, s’accompagna una grande commistione di termini appartenenti a diverse categorie: a un lessico arcaico e letterario, molto spesso si unisce l’impoetico, o il tecnicismo, qua e là riequilibrati da parole straniere (poste a volte in posizione forte, a inizio o a fine verso), nonché da neologismi.
Quel che più importa è comunque questa compresenza di poetico e di impoetico che segna antinomie, altre volte rileva convivenze ossimoriche. Anche in questo caso bisogna pensare al complesso rapporto che lo scrittore ha con la realtà a lui contemporanea: non c’è pacificazione, ma non è neanche del tutto assente la speranza o un’indagine acuta e curiosa del presente. Molto frequente è però la nostalgia per il passato privato e collettivo, un Eden almeno da rievocare, se non può rivivere.

La scelta della terzina
Lasciamo che siano le parole dello stesso Gianni D’Elia a spiegare le ragioni che l’hanno spinto all’adozione della terzina, grande svolta metrica dopo le quartine di Congedo della vecchia Olivetti (Torino, Einaudi, 1996):

L’adozione, nel mio caso, è imputabile a una sua ridotta cantabilità, che la rende più consona a un lavoro più lungo, con parti e sezioni. […] Sono riuscito a tenere più l’endecasillabo, con la terzina, e non l’ho slungato troppo verso l’ipermetro. […] La terzina è più atletica, con l’idea di conservare la terza rima, o terza assonanza. Per me, è musica nuova, non rifare Dante, ma usare il grimaldello della tradizione, così adatto a prendere tutto ciò che non è poetico, e soprattutto il tema civile, politico, il presente, i luoghi della città.

Dunque, la scelta metrica risponde a una doppia necessità, sia di tipo fonico che di tipo contenutistico. In particolare, ricordiamo che la terzina è stata più volte impiegata quale metro narrativo, nonché è stata funzionale alla necessità di procedere per sillogismi.
Nonostante quanto D’Elia accenni circa l’endecasillabo, occorre puntualizzare che nella raccolta è in realtà presente una misura versale spesso ipermetra, con versi di tredici o quattordici sillabe (il conteggio comprende anche eventuali sinalefi). Spesso questa misura ipermetra si incontra in caso di vicinanza tra discorso diretto e indiretto, o in caso di incisi (come se questi contassero metricamente meno rispetto alla normale scansione sillabica).
L’attenzione per la terza rima o terza assonanza è libera, con tanto di riprese di rime al mezzo e la totale assenza di schemi metrici predefiniti. Piuttosto, basta la semplice lettura di qualche componimento per accorgersi che le rime (o assonanze) legano vocaboli connessi o per vicinanza semantica o, al contrario, per antitesi. Dove le rime mancano, spesso vengono rimpiazzate dall’uso dell’allitterazione. La scelta sembra dunque rispondere alla necessità di una “messa in rilievo” terminologica e, di conseguenza, concettuale.
Parleremo tra poco dell’uso dell’enjambement, ma già da queste riflessioni si può dedurre che la scelta di D’Elia si configuri come rinnovamento all’interno della tradizione lirico-ragionativa. Si noti anche che le terzine sono graficamente separate le une dalle altre da uno spazio bianco: il primo e l’ultimo verso di ogni strofa risultano quindi ancor più rilevato.


L’Enjambement: un’interessante strumento comunicativo
Prima di analizzare gli enjambement più interessanti della raccolta, occorre una riflessione più generale su cosa questi rappresentino nella poetica di Gianni D’Elia.
L’enjambement è in primo luogo uno strumento metrico, semantico nonché stilistico, e interessa in modo preponderante gran parte delle composizioni. La disgregazione della più tradizionale unità metrico-sintattica risponde all’urgenza del dire, un dire che travalica l’unità del verso, talvolta allungandosi in ipermetria, talvolta facendo scivolare le parole nel verso successivo.
Molte poesie hanno incipit in medias res e in media verba, se vogliamo adottare una terminologia tipica della prosa, ovvero iniziano, ad esempio, con “E”, disgiuntive come “O”, o avversative (in particolare “Ma”), alludendo a una prima parte di ragionamento assente o recuperabile solo dalla lettura dei componimenti immediatamente precedenti. Insomma, si potrebbe parlare di una sorta di “enjambement universale”, estendibile all’intera opera, in cui i singoli componimenti sono raccordati a un quid implicito.
L’enjambement si carica di un valore semantico quando spezza unità sintagmatiche particolarmente rilevanti. Come emerge dallo spoglio dei versi inarcati, Gianni D’Elia cerca di rompere con la tradizione, rivoluzionando i più comuni giochi retorici. Infatti il chiasmo presenta una frequente struttura di questo tipo: xyy/x. Se da un lato viene celata l’immediatezza dell’artificio, dall’altro lato gli elementi x e y risultano così doppiamente rilevati dalla posizione forte di inizio e fine verso.
Più facile da interpretare è la scelta di spezzare i parallelismi: con l’enjambement, si introduce una sorta di variatio stilistica che impreziosisce un artificio abusato.
Sono inoltre di grande impatto gli enjambement che coinvolgono le antitesi, dal momento che separano molto spesso un aut-aut.

Anathea