Il mio Carso
di Scipio Slataper
Rizzoli BUR, Milano
1^ edizione: sulla <
Quest'operetta in prosa lirica, quasi un prosimetro, è la prima pubblicazione dei cosiddetti "Vociani", uscita nel 1912 ma già ideata nel 1908 ed eleborata tra il 1910 e il 1911. La critica ha accolto subito la novità del libro, non romanzo, ma più che altro una autobiografia monologante, agìta verbalmente. Bisogna però aggiungere che, pur con le sue innovazioni, l'opera resta un'esperienza letteraria giovanile, a volte imperfetta (in particolare, la terza parte).
La struttura è discontinua e frammentaria: divisa in tre sezioni numerate (inizialmente avrebbero dovuto essere intitolate: Bimbo, Adolescente, Giovane), è poi costituita da un numero variabile di frammenti di lunghezza irregolare.
Molto spesso drammatica, sia per contenuti, sia perché impregnata di dialoghi o di monologhi verso/contro qualcuno. E queste allocuzioni cambiano, sono instabili tanto quanto i raccordi tra i diversi frammenti, connessi solo dalla memoria o, talvolta, completamente irrelati.
L'autore non smette mai comunque di snidare l'interlocutore (tra i tanti, gli amici Vociani, la donna amata, la natura, o se stesso), a volte con costrutti e vocaboli tratti dal dialetto triestino.
E' infatti questo uno dei tanti modi per sottolineare la sua forte appartenenza a Trieste (nonostante le sue origini fossero slave), alla "città vecia", come scrive spesso, così contrapposta alla Trieste borghese da cui si sente escluso. La vera patria dell'autore è però il suo carso*, con la sua natura arida e impietosa, irta di rocce, pronta ad accogliere i momenti di sconforto e di riflessione del giovane io narrante-Slataper (si vedano il precoce frammento genetico intitolabile "La calata", e "La salita" che era stato precedentemente pubblicato sulla "Voce" col titolo "Sul Secchieta c'è la neve").
Natura che comunica quindi la sua primitiva forza vitale, riversando sul giovanissimo Scipio (era nato nel 1888) un prepotente e a tratti violento vitalismo, fino a un sadismo gratuito. E' la stessa formazione del ragazzo a vivere di queste contrapposizioni, oscillando tra desiderio di costruzione e di decostruzione: ci sono istanze anarchiche che non si realizzano, ma anche contraddizioni che il protagonista non riesce a risolvere. Così, il mondo del lavoro, che è vero e proprio simbolo di integrazione nella società, viene avvicinato con disgusto, e poi allontanato in una serie di improbabili professioni ideali (sogna ad esempio di diventare legnaiolo in Croazia, o di essere sorvegliante sadico in una piantagione di caffè).
Lo stesso rapporto sociale viene spesso turbato da desideri combattuti. Gli amici vociani, per quanto cercati con un "voi" o con un "fratelli" allocutori, sono sempre sentiti come altro da sé: Scipio ha una minor cultura, ma sente nelle sue vene un vigore, una forza vitale che i compagni non possono condividere, e ne è fiero.
L'amore è quanto procura più sofferenze al Scipio: traumatizzato dal suicidio della fidanzata (maggio 1910), occupa la terza sezione dell'opera con una serie di riflessioni e di episodi sul dolore e sull'inspiegabilità della morte e del suicidio. L'Anna reale viene così trasfigurata nella figura di Gioietta (a cui peraltro viene dedicato il libro), che mai ha lasciato trapelare simili intenzioni. Scipio si strugge per non aver capito le intenzioni della ragazza, e solo il ritorno al carso sembra infondere la tanto ricercata quiete.
Lo stile necessita qua e là di un labor limae più sapiente, ci sono punte da rivedere, ma appare la forte ricerca di secchezza sintattica, nonché l'uso insistito di iterazioni (con funzioni diverse), parallelismi, anacoluti. Come già detto, l'incidenza del triestino è forte, e contribuisce a dare al lessico elementarietà (specialmente nella prima sezione, in cui sono più presenti i ricordi di bambino), contrastata solo da neologismi.
Composito dunque il linguaggio, come composito il contenuto: un classico italiano forse sopravvalutato, ma senz'altro da annoverare tra le letture irrinunciabili.
Anathea
Il titolo riprende la definizione di Emilio Cecchi.
* Manteniamo la minuscola rispettando quanto Contini ha scritto nella sua Letteratura della Nuova Italia.
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