Ciao Angelo,
grazie per aver accettato questa intervista informale sul tuo Notte di nebbia in pianura, che abbiamo recentemente recensito.
Grazie a voi per l’ospitalità.
Perché non ci spieghi un po’ più diffusamente rispetto al retrocopertina chi è Angelo Ricci?
È una domanda apparentemente molto semplice, che però apre in me un mare di interrogativi. Questo perché ci sono due Angelo Ricci. Il primo è un uomo ordinario, al limite della banalità, che conduce una vita come tante. Il secondo è l’Angelo Ricci che scrive. Che scrive con piacere, ma anche con sofferenza. E che trova forse nello scrivere il modo per nascondersi ancora di più. Non a caso un personaggio letterario che ho sempre amato (anche in questo caso con piacere, ma anche con sofferenza) è stato Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez.
In parole povere, il Cavaliere Inesistente di Calvino.
Quando ci siamo incontrati, mi hai raccontato della tua professione di avvocato. Come convive la scrittura con la tua base di giurisprudenza? Trovi che lo stile ne risulti influenzato?
È una convivenza conflittuale. Probabilmente sono affascinato dalla presunta anarchia (tuttavia molto ordinata) della parola scritta, proprio per reazione al presunto ordine (in realtà del tutto anarchico e casuale) della norma giuridica e della legge.
Se il mio stile ne risulta influenzato? Mi piacerebbe rispondere di no. Devo invece confessare che è estremamente debitore della mia formazione giuridica.
E ora passiamo al libro. Notte di nebbia in pianura: titolo più che emblematico di quella realtà lombarda che noi ci troviamo a condividere. Per quegli amici che non hanno la “fortuna” di vivere nella nostra zona, come potresti descrivere questa realtà biancastra?
Mi piace molto la nebbia, come mi piacciono il freddo, la pioggia e l’inverno. Sono convinto che la pianura (in particolare la Lomellina, che è la mia terra d’origine) sia un luogo affascinante e nel contempo terribilmente inquietante. Se dici a un bambino di disegnarti una collina o una montagna, si metterà subito a fare dei segni sulla carta. Ma se gli dici di disegnarti la pianura, non saprà che cosa fare. Penso che la pianura sia il luogo letterario per eccellenza, perché ci può accadere di tutto. Perché lo puoi riempire con tutto. Nel bene e nel male. E non è detto che poi, di quello che ci metti dentro, se ne possa mantenere il controllo. Anche con la mia terra ho un rapporto conflittuale. La amo profondamente perché rappresenta le mie radici dalle quali non posso (e soprattutto non devo) fuggire, ma la odio altrettanto profondamente perché ne sono, in qualche modo, prigioniero.
Come abbiamo detto, ci sono più storie che vengono ad intrecciarsi qua e là, con punti di tangenza e non solo. Come sono nate? Tutte insieme, o hai ritenuto opportuno aggiungere altre vicende e personaggi in un secondo momento?
Quando invento una storia non scrivo mai nulla, finché la trama non ha completamente preso forma nella mia testa. Solo allora passo alla fase della scrittura. In “Fine di una storia” Graham Greene fa dire a Maurice Bendrix che uno scrittore lavora sempre, anche quando sta facendo un’altra cosa. Per me è lo stesso. Tutte le storie sono nate insieme. Tutti i personaggi hanno cominciato a muoversi insieme. Quando il tutto si è armonizzato, l’ho scritto.
Tra le altre vicende, figura anche un io-narrante che, molto casualmente, era avvocato e si distacca dalla sua precedente professione. Quanto c’è di autobiografico?
Quando terminai il manoscritto di “Notte di nebbia in pianura”, lo diedi in lettura a Mino Milani per sapere che cosa ne pensasse. Ricordo che gli dissi: “Non sono riuscito a nascondermi completamente”. E lui mi rispose: “Non è necessario che l’autore si nasconda e forse non è nemmeno giusto.” Tu mi chiedi correttamente quanto ci sia di autobiografico in quel personaggio. Contraddicendo quasi completamente ciò che ho detto prima (ma non siamo tutti pieni di contraddizioni?) sul fatto dello scrivere per nascondersi ancora di più, ti rispondo che si, c’è molto di autobiografico. E ti dirò di più. Quel personaggio incarna proprio il rapporto conflittuale fra le mie due anime: quella ordinaria del laureato in Giurisprudenza e quella fortemente (e, oserei dire, quasi follemente) eterodossa del narratore di storie.
Ernest Jones, che fu allievo e biografo di Freud, disse che, nella sua vita, due cose avevano occupato troppo posto: la Scozia e la facoltà di Medicina.
Nel mio piccolo posso altrettanto affermare che, nella mia vita, due cose hanno occupato troppo posto: la mia terra e la facoltà di Giurisprudenza.
Una sezione del tutto imprevista e imprevedibile è quella dedicata al personaggio di “Sticazzi”, e troviamo pagine colme di improperi di una certa originalità. A quale scopo tanta violenza verbale, se vogliamo, spesso gratuita?
Sticazzi altri non è se non una delle tante incarnazioni del male. Ma non rappresenta, facendo riferimento ai tanti esempi letterari, il male demoniaco, che ha comunque una sua grandezza, pur se perniciosa, deprecabile, orribile. Sticazzi è il male ordinario e meschino, quello che incontriamo tutti i giorni attorno a noi e anche in noi. Un esempio varrà più di mille parole. Un giorno vidi in televisione un’intervista ad un individuo al quale era appena stata ritirata la patente per la terza volta, perché per ben tre volte aveva investito e ucciso dei pedoni. L’individuo in questione si lamentava perché, rimasto senza patente, non poteva lavorare, ovviamente glissando sui tre omicidi. Ecco il male quotidiano, ordinario e meschino. Ecco il male “normale”, contro il quale forse non c’è rimedio.
Perché Sticazzi si esprime con una così forte violenza verbale? Un pittore, per tratteggiare i suoi personaggi, ha a disposizione i colori. Chi scrive ha “solo” le parole. La violenza verbale di Sticazzi è stato lo strumento che ho utilizzato per descriverne, per mezzo delle parole, la proterva, totale e ignobile mancanza di empatia.
Anche se non vorrei addentrarmi in domande azzardate, non posso fare a meno di notare che nel tuo libro la Giustizia manca, e non mi riferisco solo alla giustizia dei tribunali, ma alla giustizia delle coscienze. Mi pare che si possa far emergere un messaggio disilluso, ben chiaro, tutt’altro che annebbiato: ne vuoi parlare?
Premetto che non sono un moralista. Chi scrive non può, e soprattutto non deve, esserlo. Il moralismo è soltanto un alibi per i censori; si comincia con il sequestro di una rivista porno e si finisce col dire ai giornalisti e agli scrittori quello che devono o non devono scrivere. Questo almeno secondo un modello che, per quanto detestabile, a rigor di logica dovrebbe essere automatico.
Tuttavia noto intorno a noi tutta una serie di avvenimenti che stanno connotando la nostra realtà in modo molto postmoderno. A volte mi pare che accadano (nella gestione dei rapporti politici, sociali, nella nostra vita quotidiana) cose che avrebbero piena cittadinanza in un romanzo di Gore Vidal o di Thomas Pynchon o di Robert Coover o di Kurt Vonnegut. Il censore che vuole proibire il tal libro o mettere al bando il tal giornalista, può darsi lo vada a dire in televisione e proprio a braccetto con una pornostar; può succedere che un partito xenofobo ed omofobo, che vuole legge, ordine, Dio, patria e famiglia, possa magari essere guidato da un leader che, nei suoi comportamenti privati, contraddice quello che propaganda in pubblico; che il derubato, che ammazza a sprangate un ladruncolo, sia stato a sua volta in galera per reati contro il patrimonio; che il politico che parla in difesa della famiglia, ne abbia avute almeno due o tre. Il risultato che ne consegue è quello di una collettività dove le stesse persone che rivendicano un deciso permissivismo privato, chiedono a gran voce che questo venga tutelato da istituzioni sempre più autoritarie. Tutto ciò non è precisamente un modello di logica. E degno di attenzione è poi il fatto che tale stato di cose venga accettato con indifferenza. D’altra parte l’ho già detto prima: chi di noi è senza contraddizioni?
Pertanto non mi scandalizzo affatto e, anzi, trovo tutto questo decisamente molto interessante dal punto di vista letterario. Per parte mia, me ne sto buono buono a guardare. Però rivendicando con forza il mio sacrosanto diritto di registrare quello che succede.
Per quanto riguarda lo stile, si fa prepotente l’iterazione, spesso gustata e riproposta per connotare i singoli personaggi o rimarcare le situazioni in corso. Ti sei rifatto a qualche modello in particolare?
Nella mia vita ho letto e leggo molto. Credo che leggere sia l’unico modo per imparare a scrivere. Un musicista deve esercitarsi tutti i giorni. Analogamente, chi scrive deve leggere almeno un po’ tutti i giorni. Modelli ai quali mi sia rifatto direttamente non ne ho. Tuttavia, fra le tante cose che mi hanno influenzato, posso senz’altro citare il ritmo febbrile e ossessivo di Dostojevski, il disincanto barocco di De Roberto, la lucida sovversione di Dürrenmatt, la sensualità carnale dei personaggi femminili di Nadine Gordimer, l’asciutto voyeurismo di Don De Lillo e la geniale follia sintattica di Henry Miller e di Frédéric Dard.
Nuovi progetti?
Sono molto scaramantico. Parafrasando indegnamente Bartleby lo scrivano, preferirei non dire nulla.
Si legge dietro al tuo libro che sei anche operatore culturale e hai fondato premi letterari quali Tracce di Territorio e Tracce di Territorio – Pubblicare la Storia: in cosa consistono?
Il premio “Tracce di Territorio” esiste dal 2005. Si articola in tre sezioni dedicate alla narrativa, alla saggistica storica e al libro fotografico. La particolarità è che i romanzi, i saggi storici e i libri fotografici che partecipano devono fare riferimento ad una della tante realtà territoriali italiane. Ha due giurie: una è presieduta da Mino Milani e formata da addetti ai lavori, l’altra è formata da studenti delle superiori.
Il premio “Tracce di Territorio- Pubblicare la Storia” è nato l’anno scorso. Ha una giuria formata da docenti universitari di materie storiche e si rivolge agli autori di saggi storici inediti. Il saggio vincitore viene pubblicato da una casa editrice.
Molte grazie per la tua cortesia. Buona fortuna e a presto!
Gloria M. Ghioni