Brave new world (trad: Il mondo nuovo)
di Aldous Huxley
Prima edizione: 1932
Ora in traduzione per i Classici Mondadori
Ci sono echi futuristi nel cosmo fittiziamente progressista di 632 A.F., ( after Ford), in cui è ambientata la vicenda di “greggi di gemelli”, “nani identici” e “larve umane” che, distopicamente, Huxley ci propone in un romanzo che rivendica lo straordinario e paradossale diritto all’ infelicità.
Echi dell’ “uccidiamo il chiaro di luna!” nella chiusura dei musei e nella distruzione dei monumenti storici bombardano i cervelli tramite il “sapere ipnopedico”, nozioni apprese nel sonno fisiologico e metaforico delle coscienze intorpidite… E come per i Two Minutes’ Hate di “1984”, “Comunità, Identità, Stabilità”, i motti della civiltà fordiana, vengono cementati tramite quelli che J. Genet definirebbe i rituali atti a dare stabilità all’ arbitrarietà dei valori. Cerimoniali a metà tra l’ orgia bacchica e la dimensione cristologica dell’ Eucaristia legano tra loro individui senza la coscienza di essere individui… un paganesimo che porta ai termini estremi il concetto comunitario della pòlis in cui il bene dello stato ha la precedenza rispetto a quello del singolo. Qui “ognuno appartiene ad ognuno” e l’ eterodosso viene esiliato su isole che rispecchiano la sua condizione di “outcast” rispetto alla civiltà.
Tre sono gli “eretici” della vicenda: Helmholtz, ingegnere emotivo con l’ ambizione di scrivere qualcosa di violentemente bello, capace di minare la stabilità, la sensibilità anestetizzata della gente, il suo sonnambulico ebetismo; Marx che, antifrasticamente, più che sostenere la coscienza di classe è lui stesso un disadattato (questa sì che è ironia tragica!); il Selvaggio, l’unico nato da donna in una società in cui il concetto di maternità e paternità sono stati aboliti per dare nuovo corso ad un’ umanità generata “in vitro” e che, anche adulta, continua a vivere come dentro una boccia di cristallo perché il mare aperto, si sa, è più emozionante ma infinitamente più pericoloso e del resto pericoloso proprio perché suscita emozioni!
Una felicità dunque coercitiva e inversamente proporzionale non solo alla libertà ma alla stessa capacità di sentire, promotrice quindi di uno stoicismo senza conflagrazione universale, senza alcun mito di purificazione… ma “la felicità non è mai grandiosa” e come dice il Governatore Mustafà Mond: “Dove ci sono guerre, dove ci sono giuramenti di fedeltà condivisi, dove ci sono tentazioni a cui resistere, oggetti d’ amore per i quali combattere o da difendere, là certo la nobiltà e l’ eroismo hanno un peso. Ma ai nostri giorni non ci sono guerre. La massima cura è posta nell’ impedirci di amare troppo qualsiasi cosa.” Nobiltà e eroismo “sono sintomi di insufficienza politica”. La grande Arte, la Scienza, Dio… tutto viene immolato in nome della felicità. Si rinunzia alla bellezza, alla verità, all’ amore per una morale “al di là del bene e del male” che sfoghi gli istinti e non reprima. Tutto sussiste identico a sé stesso, dimenticando la storia per evitare il cambiamento che significherebbe destabilizzazione mentre tutta la sperimentazione è circoscritta al campo dell’ ingegneria genetica e bio- chimica per impedire l’ invecchiamento e la malattia, per condizionare la gente ad amare ciò che si deve amare, il compito che sin dalla nascita le viene assegnato. Nessun concetto di vocazione sopravvive, nessuna provvidenza né trascendenza. In fondo se con la morte tutto finisce non importa: si vive non per sé stessi ma perché parte di un organismo di cui se il singolo perisce egli è solo una cellula già in procinto di essere sostituita. Ecco il rovesciamento radicale dell’ ideale romantico di unicità dell’ individuo ed ecco che la società si fa impoetica, aliena alla tragedia (“non si possono fare delle tragedie senza instabilità sociale”) come al riso: quello di sollievo, quello complice, quello bonario e pieno di comprensione. Ma per l’ impianto formale il testo mantiene un’ impostazione ancora tradizionale, un dialogo comunicativo e non franto, monologante nell’inconciliabilità dei punti di vista come avverrà in autori successivi (specie teatrali). Nonostante ciò la tecnica narratologica sorprende al capitolo III per l’ uso di un montaggio alternato di sapore cinematografico. Il romanzo stesso si presta a trasposizioni e adattamenti per il cinema di fantascienza di cui specialmente risulterebbe indimenticabile quell’ ultima amara scena col Selvaggio impiccato al faro, i suoi piedi che oscillano “lentamente, molto lentamente, come due aghi di bussola che non abbiano premura”, indicando “sud, sud- ovest, sud, sud- est…”, costituendo il suicidio l’ elemento di destabilizzazione sociale, il primo incontro del “mirabile nuovo mondo” col dolore e, forse, chissà, un primo indizio verso una società matura al punto da superare la dialettica tesi- antitesi in una sintesi che contenga la globalità dell’ esperienza esistenziale.
Esposto Ultimo Eva Maria
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