Platone
Fedro
Milano, BUR, 2006
pp. 317
€ 9.80
Una cosa va detta subito: Il Fedro è un dialogo strano, stranissimo, (se possibile) postmoderno. Chiunque conosca Socrate, è abituato a incontrarlo nelle piazze, nelle vie, nelle botteghe di Atene. Per Il Fedro, invece, abbiamo a che fare con un Socrate extra moenia, intento a vagare e a discutere con Fedro in un rigoglioso ambiente bucolico, tra platani, rivi, ruscelletti e altari votivi. Ma anche in questa verde Natura, il chiodo fisso di Socrate è la salute della città, l'analisi dei problemi politici, di tutti quei nodi che si dipanano dal fatto ineludibile della convivenza degli uomini in una comunione e divergenza di interessi.
Così dice Socrate: “Io sono appassionato a imparare: ma la campagna e gli alberi non sono disposti ad insegnarmi alcunché, mentre imparo dagli uomini della città”.
Questa scissione tra riflessione e Natura, tra mondo sociale e mondo naturale, che è la cifra caratteristica della razionalità occidentale (vengono in mente certe frasi di Hegel, o la divisione kantiana, di ascendenza platonica, tra legge di natura e legge morale), è, essendo del tutto estranea alla mentalità di un greco, uno dei tanti tasselli di quell'inizio di dissoluzione dell'antichità che Socrate ha rappresentato, e che il cristianesimo ha portato a compimento.
In secondo luogo il dialogo è strano perché parla di tante cose disparate, di Amore, della scrittura, dell'immortalità dell'anima, della retorica. Su queste questioni la letteratura critica si è davvero prodigata da tempi lontani in ipotesi alternative ( cfr. Taylor, Platone, l'uomo e l'opera). E davvero non si riesce a capire, ad una prima lettura, quale sia il nucleo centrale che Platone intenda trattare. Già gli antichi commentatori si domandavano se il tema del dialogo fosse Amore o la possibilità di una buona retorica.
Tema del dialogo:
Fedro, il secondo oratore del Simposio, non è più un giovinetto, e ormai ha le sue idee: ha appena imparato a memoria un discorso assurdo del suo oratore e maestro di riferimento, Lisia, ed è bramoso di raccontarlo a chi gli capiti di incontrare lungo la sua passeggiata oltre le mura di Atene. E chi incontra? Socrate, il più ostinato critico della retorica. Incontra l'uomo giusto, e il più saggio e il più pignolo, che gli farà capire che non è strutturalmente possibile alcuna retorica senza conoscenza della giustizia e degli oggetti di cui i discorsi si occupano. Socrate mostrerà a Fedro che, non solo il discorso di Lisia è mal articolato, e che sia importante, anche dal punto di vista stilistico organizzare lo scritto in maniera precisa, ma che anche per quel che concerne il contenuto l'autore ha ben poco capito che cosa sia realmente l'oggetto del suo discorso, Amore, e quale sia la sua divina potenza. Infatti, mentre per Lisia, Amore è un delirio che pone l'amante e l'amato in uno stato di irrazionalità e di incapacità di autocontrollo, per Socrate, invece, l'amore, il vero amore, non quello turpe e abietto che mira all'esclusiva soddisfazione del piacere, è amore del bello, è capacità di elevarsi al di sopra del fluire contingente delle cose, per poter ritornare a vedere quelle realtà iperuranie, oltre-celesti, la Bellezza, la Temperanza, la Giustizia in sé, che un tempo vedemmo, quando seguimmo, come in una processione festiva, il carro del nostro dio di riferimento. Chi possa elevarsi e vedere le idee nella Pianura della realtà, è davvero simile al dio. Per questo Eros è certo un delirio, ma è anche un dio, il più divino e sconvolgente di tutti.