Lavorare all'inferno. Gli affreschi di Sant'Agata de' Goti
a cura di C. Frugoni
Laterza, 2004
€ 35,00
L’epoca in cui viviamo, costruita su una continua stimolazione dei sensi, ha come devastante effetto la diseducazione al loro utilizzo. Si tratta di una relazione di proporzionalità paradossale: all’aumento esponenziale di sollecitazioni visive corrisponde una diminuzione fortissima dell’attenzione, della capacità di soffermarsi sugli oggetti, anziché scorrerli come una pagina web colma di informazioni. In definitiva, la tesi che sostengo è che non sappiamo più guardare e ascoltare allo stesso modo. Ci sono i pro e i contro, naturalmente: ma questa premessa era necessaria, se non altro per dare un piccolo saggio di quale può essere l’abisso che intercorre tra il modo in cui un nostro contemporaneo e un uomo del XV secolo “vedono”, “ascoltano”.
Vedere il colore, immagini e storie. “Lavorare all’inferno”, raccolta di saggi a cura della storica C. Frugoni , nell’analizzare il ciclo di affreschi di una chiesetta del beneventano, la SS. Annunziata di Sant’Agata de’ Goti, raggiunge in sostanza un obiettivo più alto: quello di mostrarci quanto stretto sia il collegamento tra il fatto artistico e storico.
Ad un occhio inesperto – l’occhio abituato ai grandi cartelloni pubblicitari, ma anche quello abituato a misurare la bellezza sui corpi della Cappella Sistina – questo ciclo di affreschi (riportato alla luce in un miracoloso restauro tra il 1973-1977) non sembra altro che l’espressione di una mano provinciale. Ma la realtà, specialmente nell’iconografia medievale, non è mai semplice e “brutta” come appare.
L’abside, decorata come “una grande pagina miniata” (Abbate), pullula di affreschi votivi che ritraggono, in tabelloni istoriati, santi guaritori, protettori contro le incursioni saracene, emblemi di una spiritualità della quale, nelle nostre città, sopravvive solo un larvato ricordo, in sagre di paese e processioni delle quali molti non ricordano più il significato.
Ma la sorpresa della SS. Annunziata si riserva alla fine: l’ultima cosa che i fedeli vedevano (e vedono), prima di uscire, è il grande affresco del Giudizio universale. Sulla parete della controfacciata si condensano significati nuovi e tradizionali, e anche un “mistero” che vi lascio il piacere di scoprire.
Nella parte riservata all’inferno, un mugnaio, un fabbro, un giudice, un notaio, tra le fiamme continuano tranquillamente quelle professioni che, esercitate con disonestà, hanno decretato la loro dannazione. “Lavorare all’inferno”, mantenendo quindi un’identità sociale, una tipizzazione che rendeva bruciante e istantanea l’immedesimazione del fedele.
Una sola cosa non è cambiata nel corso dei secoli: la capacità dell’uomo di riconoscersi in “segni”, immagini che immediatamente identificano un’idea, una storia, un messaggio. Questa raccolta di saggi è capace di calarci, con immediata chiarezza, nel sistema di segni che un uomo del primo ‘400 era capace di cogliere al volo, e grazie al quale poteva riflettere – non soltanto sul suo destino ultimo, ma anche sui rapporti politico-sociali che lo circondavano. Uno strumento, dunque, per meditare su se stessi seguendo un doppio binario, quale si profilava chiaramente in quegli anni: quello escatologico, profondamente devoto, e l’altro, altrettanto urgente, delle interazioni umane.