My (Noi)
di Evgenij Zamjàtin
Lupetti Editore, collana I Rimossi
Il romanzo My (Noi) fu scritto da Zamjàtin tra il 1919 e il 1921. Erano trascorsi pochissimi anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, e l’orrore dei totalitarismi non si era ancora spiegato in tutta la sua potenza distruttiva (dall’una e dall’altra parte: Hitler aveva appena costituito il Partito Nazionalsocialista, Stalin cominciava ad avere i suoi primi attriti con Lenin).
Eppure, questo romanzo colpisce per le sue profetiche intuizioni. Zamjàtin, ingegnere navale e romanziere per passione, comprese subito che quella Rivoluzione che lui stesso aveva appoggiato con entusiasmo stava irrimediabilmente quanto rapidamente deviando verso il regime totalitario. Ne è testimonianza la storia editoriale di questo romanzo: condannato dalla censura sovietica, si diffuse rapidamente nel resto d’Europa, specialmente grazie alle traduzioni inglese e francese (fu proprio quest’ultima a ispirare George Orwell per un altro capolavoro della distopia, 1984); e poté essere pubblicato in Russia, insieme allo stesso 1984, soltanto nel 1988.
La domanda sorge dunque spontanea: cosa contiene “Noi” di tanto sovversivo? L’universo di My, lo Stato Unico dominato dalla misteriosa, dispotica figura del Benefattore, rappresenta l’estrema realizzazione di quegli ideali di razionalità e tecnica propugnati dal regime sovietico (basti pensare agli obiettivi dei Piani Quinquennali). In un futuro non ben identificato in cui le città, cupole di asettica perfezione, sono protette dal resto del mondo da un Muro Verde, l’esistenza degli uomini (non più individualità distinte e consapevoli, ma numeri) si svolge secondo leggi determinate, all’insegna della logica matematica e della trasparenza: le case, le strade, i mobili sono di vetro, ogni cosa avviene (così come nell’Utopia di Moro…) sotto gli occhi degli altri; un po’ di intimità è concessa soltanto per gli appuntamenti amorosi, rigidamente organizzati secondo un sistema di “talloncini rosa”, in cui è possibile abbassare delle tendine.
Un universo pulito, ordinato, apparentemente perfetto: tale appare al protagonista, il “filosofo matematico” D-503, costruttore di un Integrale che porterà tale messaggio di “utopica” perfezione verso altri, più barbari pianeti.
Ma le “magnifiche sorti e progressive” dell’utopia apparente non possono che rivelare la loro inconsistenza: come spesso avviene nella letteratura distopica, è l’amore per una donna a scatenare il dubbio. E qui l’amore si incarna nella sfuggente rivoluzionaria I-330, che rivela a D-503 la sua reale infelicità di uomo che ha un’anima (“un’anima incurabile”, per l’esattezza).
Ma non è l’unico orrore quello di scoprire di avere un “io” (male assoluto in un mondo che ha sacrificato l’individuo alla comunità, l’Io all’incredibile Noi); c’è anche quello, ben più profondo e ossessivo, di ritrovare la propria personalità scissa in due, l’io conformato che ama il suo mondo e lo celebra con esasperata oratoria, e l’“io villoso” che ama I-330, ma desidera innanzi tutto affermare autenticamente sé stesso.
È questo il contrasto fondamentale, che a ben vedere è quello tra felicità e libertà, comune a tutte le distopie “classiche” del Novecento. Una lotta che si realizza in un romanzo dallo stile trasparente e curatissimo, in cui colori e i particolari anatomici sembrano quasi accecare, imprimersi a fuoco nella memoria col loro riverbero: i denti aguzzi di I-330, i polsi paffuti di O-90, le mani “villose” di D-503…
Se D-503 è l’uomo scisso e incapace di risolvere questa sua scissione, il segreto messaggio lasciato da Zamjàtin è nell’eroica I-330, che rappresenta chiaramente la forza impetuosa dell’antitesi, per dirla con Hegel, l’energia “in negativo” (la rivoluzione per la riconquista della libertà, dell’individualità, del rapporto con la natura) necessaria affinché la dialettica inarrestabile della Storia possa proseguire:
“Questo non ha senso! È assurdo! Non capisci che quello che voi tramate è una rivoluzione?”
“Sì, una rivoluzione! Ma perché è assurdo?”
“Assurdo perché non può esserci una rivoluzione. Perché la nostra rivoluzione - non lo dici tu, ma lo dico io - è stata l'ultima. E non ci può essere nessun'altra rivoluzione. Lo sanno tutti.”
L’aguzzo, ironico triangolo delle sopracciglia proseguì:
“Mio caro: tu sei un matematico. E in più sei un filosofo matematico: dimmi l’ultimo numero.”
“Cioè? Io... io non capisco: quale ultimo numero? (...) Ma, I, questo è assurdo. Dal momento che il numero dei numeri è infinito, che numero vuoi che ti dica?”
“E tu quale ultima rivoluzione vuoi? Non c'è un’ultima rivoluzione, le rivoluzioni sono senza fine.”