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Il 63° Premio Strega tra i muri di un orfanotrofio veneziano settecentesco

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Stabat Mater
Di Tiziano Scarpa
Torino, Einaudi, 2008

pp. 144
€ 17.00

Stabat Mater doloròsa” sono le prime parole di una preghiera medievale, attribuita a Jacopone da Todi, dedicata alla Madonna sofferente per il Figlio in croce. Stessa solennità e dolore che vengono ripresi dal libro di Tiziano Scarpa, in cui l’invocazione alla “Signora Madre” apre le lettere che la protagonista, Cecilia, indirizza dall’Ospitale veneziano alla madre sconosciuta e assente. «Ma sono lettere, queste?», s’interroga la stessa Cecilia, «A me sembrano un abbraccio che si sporge alla finestra su un cortile vuoto, sono calci e pugni dati alla cieca, per aria, in solitudine» (p. 43). In effetti, più che vere missive, sulle scale buie dell’orfanotrofio Cecilia salva brevi lacerti di riflessioni, interrogativi, accuse verso quella madre che l’ha abbandonata dopo la sua nascita:
«Avete ceduto all’amore o al capriccio, povera Signora Madre? O forse è stato l’assalto di un uomo violento. Non illudetevi, non basta questo a perdonarvi, non basterà mai nulla» (p. 20).
Nonostante questo comprensibile odio, Cecilia continua visceralmente a sperare che la madre, pentita, torni a cercarla, per poi cedere di continuo al dato di fatto, crudele, di essere lì rinchiusa.
Come compagnia, di tanto in tanto la Morte, personificata, instilla dubbi e apre veri e propri dialoghi, che interrompono la scrittura di Cecilia. Contrariamente alla visione tradizionale, la Morte non conserva nulla dell’iconografia spaventosa e terribile: al contrario, è una compagna a volte silenziosa, a volte beffarda, a volte invocata, ma mai vissuta da Cecilia, che sceglie di rimandare il vero incontro. La Morte dichiara, piuttosto, di essere l’unica vera madre di Cecilia, l’unica che non l’abbandonerà mai veramente, colei a cui fin dalla nascita ognuno è affidato. Ma forse, se Cecilia decide di non accettare quell’abbraccio fatale, è per la passione per la musica, che coltiva dalla sua infanzia: nell’Ospitale, le più talentuose suonano e cantano. Sul violino, lungo le corde, Cecilia trova la pace e placa le voci che la scuotono di notte, specialmente da quando all’Ospitale giunge il nuovo compositore, don Antonio, che altri non è che il celeberrimo Vivaldi.
Pur commettendo deliberati anacronismi (che lo scrittore confessa in una nota alla fine del libro), nell’Ospitale Vivaldi compone alcune tra le sue più famose opere, tra cui le Quattro stagioni. E Cecilia è la violinista preferita, colei che può interpretare tanto bene da suscitare anche l’invidia del grande musicista. Solo da questa esperienza, Cecilia potrà affrontare la sua vita, liberandosi dai fantasmi, o, forse, rincorrendoli.

Stilisticamente asciutto, interrotto di continuo, ripreso in modo talvolta ossessivo per l'iterazione di formule, il libro si inserisce bene nella vena narrativa contemporanea, immaginosa e a tratti quasi surrealista (si vedano ad esempio le prime pagine), tra visione, fantasia e realtà. La trama, di per sé accattivante, è disgregata in paragrafi brevissimi, mescolati, ma non disordinati. Anzi, sembrano rispettare il capriccio dell’autore che, di tanto in tanto, introduce riflessioni slegate dal contesto, talvolta di carattere sentenzioso, spesso esistenziali.

Interessante e molto personale è la scelta di inserire in coda all’opera la già citata nota autoriale, in cui Tiziano Scarpa cita da sé le fonti su cui s’è basato per il suo lavoro, la musica e autodenuncia le possibili obiezioni critiche al testo: una premura tanto accurata quanto sospetta.
Vincitore del Premio Strega, Stabat Mater è un libro degno di lettura, non una grande opera letteraria, ma senza dubbio parole ben costruite.

GMG