Il cavaliere inesistente
Italo Calvino
I ed. 1959, Mondadori
Se potessimo ipotizzare l’esistenza di una “biblioteca viva”, in cui i personaggi dei romanzi abbiano carne e ossa con cui presentarsi al Lettore, la sezione dei classici contemporanei sarebbe occupata da una folla di uomini spaccati a metà, dallo sguardo sfuggente, forse sospesi in bilico su un filo, o con uno squarcio al centro del petto: tutti accomunati, però, dal fatto di essere personaggi in crisi, di portare sul loro volto e comunque nelle loro storie la traccia di una certezza sul self che è venuta a mancare.
Tra questi personaggi troveremmo un cavaliere dall’armatura bianca, perfettamente pulita e lucente. Tra tanti piccolo-borghesi, intellettuali, proletari e partigiani, sembra si tratti di una svista, un volume scappato dalla sezione dei poemi cavallereschi. In un certo senso lo è: Agilulfo Emo Bertrandino di Guidiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, Il cavaliere inesistente, vive nello stesso multiforme universo dei paladini della Chanson de Roland (o meglio: del Furioso di Ariosto). Ma perché, allora, un cavaliere dovrebbe guadagnarsi a pieno diritto un posto tra i personaggi emblematici della contemporaneità?
La risposta è tutta nella vulcanica fantasia di Calvino. Una fantasia che ragiona per relazioni funzionali, e per emblemi che hanno tutto il fascino di allegorie postmoderne. Agilulfo è infatti uno degli Antenati calviniani (Il cavaliere inesistente completa, nel 1959, la trilogia araldica iniziata con Il visconte dimezzato nel 1952): scelto e costruito perché racconti qualcosa dell’uomo contemporaneo, delle sue nevrosi e dei suoi problemi esistenziali.
L’aggettivo non è casuale: Agilulfo, infatti… non esiste. L’armatura bianca, al suo interno, nasconde il vuoto, e il cavaliere si tiene in vita solo grazie a un continuo esercizio della volontà: “Aveva sempre bisogno di sentirsi di fronte le cose come un muro massiccio al quale contrapporre la tensione della sua volontà, e solo così riusciva a mantenere una sicura coscienza di sé. Se invece il mondo intorno sfumava nell’incerto, nell’ambiguo, anch’egli si sentiva annegare in questa morbida penombra, non riusciva più a far affiorare dal vuoto un pensiero distinto, uno scatto di decisione, un puntiglio. Stava male: erano quelli i momenti in cui si sentiva venir meno; alle volte solo a costo d’uno sforzo estremo riusciva a non dissolversi. Allora si metteva a contare: foglie, pietre, lance, pigne, qualsiasi cosa avesse davanti. O a metterle in fila, a ordinarle in quadrati o in piramidi. L’applicarsi a queste esatte occupazioni gli permetteva di vincere il malessere, d’assorbire la scontentezza, l’inquietudine e il marasma, e di riprendere la lucidità e compostezza abituali.”
La realtà tragica dell’uomo-che-non-è si consuma tutta nel tentativo di dimostrare di esistere: e non è forse una costante dell’indole umana, specie nel tempo in cui tutto si sfalda, le percezioni si fanno relative e illusorie? Compensa la tragedia di Agilulfo la sua nemesi, Gurdulù, “uno che c’è ma non sa di esserci”, portavoce di un tipo di esistenza animalesca, di fusione indifferenziata con il tutto. Per ironia della sorte Gurdulù è assegnato come scudiero ad Agilulfo.
Intorno a loro, in un intrecciarsi di avvenimenti che fa pensare davvero ad un Ariosto novecentesco, nel suo divertito raccontare “le donne, i cavallier, l’arme, gli amori”. A impugnare le redini del racconto è una suora, Teodora, che condannata a scrivere per penitenza si trasforma in una narratrice ironica, inaffidabile e misteriosa: una vera e propria guerra con la pagina scritta, che si trasforma in campo di battaglia, locus amoenus ma anche carta geografica medioevale, nel più originale stile calviniano.
Uno stile che ci garantisce tutto il gusto di una lettura che galoppa come un cavallo in corsa: perché “La novella è un cavallo: un mezzo di trasporto, con una sua andata, trotto o galoppo, secondo il percorso che deve compiere, ma le velocità di cui si parla è una velocità mentale.” (Lezioni Americane)
Una sola cosa è certa: Il cavaliere inesistente è uno di quei libri da rileggere più e più volte. Ogni volta si scoprirà un nuovo spunto di riflessione sui quei grandi temi che attraversano tutta la produzione di Calvino… l’uomo, il mondo, la scrittura.
Laura Ingallinella