di Orhan Pamuk
Torino, Einaudi, 2006
pp. 388
I bizantini
di Averil Cameron
Bologna, Il Mulino, 2009
pp. 323
Il lavoro che mi accingo a proporre è frutto di una lettura incrociata di due testi egualmente noti e stimolanti nell' ambito degli studi degli orientalisti e di coloro che, seppure dilettanti, desiderano accostarsi alla civiltà bizantina con quella curiosità propria di chi ha in mente le cupole delle moschee, riproduzioni di quella prima grandiosa e ineguagliabile di S. Sofia; le tessere vitree fissate a mano su strati di doppia malta secondo microangolature che riflettono i raggi del sole in migliaia di microdirezioni... gli stessi mosaici che in età tardo comnena furono superbo vanto dell' impero. La Istanbul di chi mentalmente vede souq e bazar e venditori ambulanti e commercianti di tappeti e shisha e samovar fumanti, emananti aromi di tè alla mela, cannella e chiodi di garofano.
Chi anche per poco, fermandosi davanti alla vecchia locomotiva dell' Orient Express, non ha sognato di viaggiare in carrozza al fianco di W. Churchill, Agatha Christie o, perchè no?, del suo personaggio Ercule Poirot, quando, attraversando mezza Europa, giungevano nella terra dell' esotismo per antonomasia? Cosa avrà significato per tante generazioni navigare sul Bosforo dopo aver attraversato lo stretto dei Dardanelli sulle antiche rotte di Ilion, la leggendaria Troia? E quante stirpi si sono avvicendate in conflitto tra loro o crecando un' integrazione pacifica tra greci, ebrei, rus' e avari, slavi, arabi, peceneghi, mongoli e latini ( più tardi italiani veneziani e genovesi), ottomani?
Questa disamina vuol forse essere l'analisi di una città e la psicanalisi del suo passato, dei suoi traumi, delle sue esaltazioni più che la critica testuale de "I bizantini" di A. Cameron, docente oxoniense, e di "Istanbul" di O. Pamuk, premio Nobel per una letteratura che è anche storia enciclopedica di una nazione e più popoli; storia comune che scorre e trascorre parallelamente a quella autobiografica dell' autore e a quella di un altro mondo, occidentale e remoto; storie che però, spesso e volentieri, intersecano i rispettivi percorsi.
Le vicende dell' odierna Istanbul, battezzata Costantinopoli da Costantino il Grande, attraversano di fatto un arco che va dalla tarda antichità al Medioevo e al primo Rinascimento (reso possibile in Italia grazie alla rivalutazione del greco riscoperto in seguito alla fuga verso la nostra penisola degli intellettuali bizantini scampati al sacco del 1453 e recanti seco manoscritti sottratti alla distruzione o all' oblio).
L' Istanbul contemporanea è poi l' emblema del moderno tema del doppio, la città eternamente scissa tra Asia e Europa, almeno nella prospettiva metodologica alla base della tradizione storiografica occidentale. La separazione di Oriente e Occidente infatti è più un' ideologia e una sovrastruttura che un dato oggettivo: un filo sottile lega autori come Flaubert e Maupassant a certi scenari permeati da un' aura malinconica: le "spolia" di antichi monumenti e palazzi nobiliari, le case fatiscenti, i passanti soffocati nel grigiore dell' atmosfera ( la stessa riproposta dagli scatti di Pamuk e dal capitolo "Bianco e nero"). Questo leit motiv è una "tristezza" che, volendo rendere il termine con un equivalnte nell' ambito del linguaggio decadente, si potrebbe rendere con "spleen", e che l' autore riferisce a "quattro autori tristi" attratti dal canone occidentale, ad esso ispiratisi senza mai riuscire a riprodurlo, sospesi in un limbo di solitudine in un' esperienza di scrittura troppo atipica per essere erede della tradizione bizantina, eccessivamente gravitante attorno a quel sole, al nucleo atomico, che è Istanbul per essere un sistema europeo.
Gli autori di Pamuk sono Koçu, Hisar, Kemal e Tanpinar, assidui lettori di Mallarmé, Gide, Valèry, Proust. E' Hisar a parlare di "civiltà del Bosforo" e ad affermare, immedesimandosi in questo malessere cronico legato a un' inarrestabile declino, che "tutte le civiltà, come gli uomini nelle tombe, sono transitorie. E noi sappiamo che le civiltà scomparse non torneranno più, come i nostri morti."
Di civiltà morte Istanbul ne ha conosciute molte restando sempre città viva e vissuta nonostante sia stata segnata da riforme fiscali e militari come l' istituzione dei themata ( terreni concessi dallo stato ai soldati in luogo del solidus inflazionato perchè questi li proteggessero per il proprio interesse particolare e a titolo gratuito) ; dalle guerre persiane, concluse da Eraclio con il recupero della Vera croce restituita alla città di Gerusalemme; dai concili e dallo scisma della Chiesa ortodossa; dal sacco del 1204 in cui il Mandylion, trafugato, fu portato in Europa dai crociati; dagli attacchi e dalle incursioni che Bisanzio respinse sotto la protezione della Vergine Theotokos, la guerriera madre di Dio, patrona di Costantinopoli; dall'assedio che segnò la caduta dell' Impero Romano d' Oriente o, come la chiamarono gli ottomani, "la Conquista" e la "turchizzazione"; dalla Repubblica e dall' avvento di Ataturk; dalle epurazioni razziali.
Oggi gli scavi, le suppellettili, i monili, l' abbigliamento, ciò che concerne la cultura materiale in genere ma anche gli archivi, i documenti e le agiografie ritrovati negli antichi monasteri (come quello di S. Caterina sul Sinai), le arti visive e il "Libro delle cerimonie" redatto da Costantino VII Porfirogenito e riguardante il protocollo e l' etichetta di corte, le icone ( i cui realizzatori si ritennero ispirati da Dio al pari degli autori delle Sacre Scritture e tra i quali si colloca D. Theotokopulos), ci restituiscono l' immagine di una cultura ricca a tal punto da costituire un universo a sè stante e caotico, affollato e malinconico come la polverosa soffitta di un collezionista di pezzi d' antiquariato tanto preziosi quanto negletti...