Potere e teoria politica
di Mario Stoppino
Ed.Giuffrè, Milano 2001.
Mario Stoppino (1935-2001) è stato un politologo molto importante per lo sviluppo della Scienza politica in Italia. Già docente presso l'Università di Pavia, ebbe tra i suoi meriti quello di aver contribuito alla diffusione nel nostro Paese delle idee del costruttivismo americano in Scienza politica. Il nucleo teorico di questo pensiero, che si era diffuso attraverso la cosiddetta Scuola di Chicago nel periodo tra le due guerre mondiali, era che la definizione di politica dovesse essere imperniata sul concetto di potere. Lo studio del governo o dei partiti non era più il campo esclusivo per una definizione della politica, ma si doveva analizzare l'intero contesto sociale così come esso è costantemente informato dalle relazioni di potere. Per capire la politica non si dovevano più studiare solo le istituzioni politiche, i parlamenti, i partiti, ma anche tutte quelle forme più o meno organizzate di esercizio del potere, attribuite ai sindacati, agli individui non organizzati, ai gruppi di pressione, alle Chiese, alla grande industria. Ogni forma di potere, da quella del padre sul figlio, a quella del Comitato politico sui militanti del partito, a quella della propaganda sui cittadini, è, nella definizione di Harold Lasswell, una forma di politica: dove c'è potere, c'è politica. Quella di Lasswell fu un'intuizione rivoluzionaria perché aprì nuovi continenti all'esplorazione della Scienza politica, ma fallace, secondo Stoppino, perché erroneamente onnicomprensiva, e incapace di individuare il quid di specificità del potere politico rispetto agli altri poteri rilevanti, quello economico, quello coercitivo, e quello simbolico.
Potere e teoria politica, nella sua terza edizione accresciuta, si presenta come un manuale di teoria politica. Ma esso non è una storia del pensiero politico, è piuttosto un libro di tendenza analitica. In esso i concetti fondamentali della teoria politica, il concetto di potere, di autorità, di conformità, di violenza, di simbolo, di struttura e di processo politico, i mattoni di cui ogni teorico politico moderno si serve per la sua teoria, vengono analizzati e messi al servizio di una innovativa teoria della politica incentrata sul concetto di potere. Il concetto di potere di Lasswell è troppo ampio, non distingue realmente la politica dalla società. Per Stoppino, la base dell'azione politica è l'azione rivolta alla ricerca del potere, che si ponga come fine il potere, cioè la capacità di determinare il comportamento altrui verso obiettivi desiderati (valori). Ma i fini degli attori coinvolti in un campo sociale sono necessariamente in conflitto: non c'è accordo tra gli individui su ciò che ha valore. Gli attori perciò possono porsi come fine dell'agire, non i valori, ma la conformità a comandi che abbiano per fine i valori. L'azione politica è perciò quell'azione che ha per fine la conformità stabile (nel tempo) e generale (per n individui) delle persone coinvolte. L'azione politica tende cioè ad un potere garantito, ad un potere che sia in grado di distogliere dall'incertezza della ricezione dei fini, tipica di un campo nel quale le volontà sono in conflitto.
La politica come uso legittimo della forza? Una visione critica
Come è possibile distinguere il potere politico da altri tipi di potere, quali il potere economico, o quello simbolico? In Economia e società Max Weber aveva definito il potere politico come quel potere che dispone del monopolio della violenza. In Potere e teoria politica Stoppino critica questa posizione che fonda il concetto di politica su quello di violenza. Vorrei esporre per sommi capi gli argomenti a sostegno di questa tesi, al fine di interessare alla lettura di Potere e teoria politica. Innanzitutto si dovrebbe fare una precisione: lo Stato non detiene il monopolio assoluto della violenza, ma il monopolio tendenziale della violenza. I criminali, i delinquenti, sono persone che dispongono di armi e che agiscono per mezzo della violenza. Ma è pur vero che lo Stato lotta contro di essi per avocare a sé il completo controllo della violenza, infatti esso dispone di gruppi organizzati, la polizia, l'esercito, addestrati e muniti di armi per contrastare l'uso illegittimo della violenza. Ma anche al suo interno, lo Stato permette alcune forme di violenza e le considera legittime: il potere dei padri di rimproverare i figli anche con la violenza, ad esempio. Ma è pur vero che lo Stato tende a controllare anche questo tipo di violenza tollerata al suo interno. Precisamente, allora, dovremmo dire che lo Stato ha il controllo tendenziale della violenza, e ne regola l'uso legittimo (attraverso le leggi).
Io credo che, tra i molti, l'argomento più valido a critica di questa tesi sia di questo tipo: il monopolio della violenza è una caratteristica dello Stato moderno, non dello Stato in generale (d'altronde già Weber aveva così precisato la sua definizione). Il monopolio della violenza non è un predicato dello Stato, ma un lungo processo, il risultato di secoli. La formazione degli Stati nazionali, l'omogeneizzazione del diritto (anche grazie all'universalità del diritto canonico), furono fattori che contribuirono a tale realizzazione. Gli studi storici rivelano che il tasso di violenza privata nel Medioevo era altissimo, e dobbiamo attendere la modernità perché le crisi politiche non si risolvano con avvelenamenti, lotte tra fazioni interne alla città, come nell'antichità.
Le teorie che fondano il potere politico sulla violenza tendono a vedere nella società il luogo del conflitto tra gli uomini, cui solo la politica, come minaccia, come dominio di una minoranza su una maggioranza, può porre rimedio. Queste teorie sono classicamente elitiste. Le teorie contrattualiste, invece, come quella di Locke, o di John Rawls, tendono a vedere la società come il luogo della cooperazione tra gli uomini, e la politica come l'accordo unanime (per rendere conto dell'eguaglianza) sui principi di questa impresa cooperativa. Esse fondano la politica sul consenso.
Per Stoppino, entrambe queste teorie sono parziali, astrazione. Non solo la politica si fonda su consenso e violenza allo stesso tempo, ma può avere anche basi ulteriori. E specificamente, la violenza, è non tanto il fine, quanto il mezzo specifico cui il potere politico può ricorrere. Infatti, il potere politico ricorre all'applicazione della violenza non come suo quid specifico, ma quando l'azione della politica stessa fallisce. L'applicazione della violenza non è il fondamento della politica, ma il suo fallimento. La minaccia, invece, della violenza è il mezzo con cui la politica garantisce la stabilità dell'ordine sociale. Questo è un fatto, ma è anche una proposizione sintetica quasi paradossale.
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