Gentile Maria, la ringrazio per aver accettato di incontrarci nel Salotto virtuale di CriticaLetteraria per fare una chiacchierata sul suo romanzo, “La legge del più forte” (qui la nostra recensione).
Ringrazio Critica Letteraria per lo spazio che mi concede e ringrazio i lettori che mi seguono e che hanno dimostrato una sensibilità non comune nei confronti di tematiche impopolari, come quelle che ho esposto nel libro.
Per cominciare, ci parli un po’ di lei. Chi è Maria Gangemi?
Maria Gangemi è un’idealista che non si è mai rassegnata a come vanno le cose nel mondo. E’ una persona che come tante, ha gli interessi più svariati, ama studiare, riflettere, discutere in modo costruttivo, con calma, magari con chi non è fossilizzato in idee apparentemente aperte. Sono una che crede che conoscere e formulare molte ipotesi ci permette di formare un’idea nostra e di avvicinarci alla realtà, perché la nostra esperienza è un filtro di fronte a ciò che ci viene proposto, ed è per questo che un libro come il mio trova un’interpretazione così diversa in ogni lettore.
Dalla nota biografica in retrocopertina leggiamo che è di origini calabresi, ma vive a Torino. Il suo romanzo, inoltre, è ambientato in Calabria, e questa scelta gioca un ruolo importante. La domanda, allora, sorge spontanea: cosa rappresenta per lei e nel suo romanzo la Calabria? Che rapporto ha con la sua terra d’origine?
Ho vissuto all’estero, vivo in Piemonte e lo apprezzo da cinque anni ma, ogni volta che mi sono trovata lontana dalla mia terra, mi sono sempre sentita ancora più orgogliosa delle mie origini e ho avvertito ancora più forte la mia identità. Mi addolora tantissimo sentire certe notizie, ma i calabresi sono persone forti e riusciranno a valorizzare il meglio della nostra terra, indicibilmente bella e ricchissima di cultura.
Il romanzo è ambientato in Calabria solo per via delle mie origini. Di tanto in tanto ho attinto ai miei ricordi, nei quali il medico viveva accanto al contadino, e a volte nella stessa persona convivevano tradizione e innovazione mentre spesso inconsapevolmente, le persone abitavano in luoghi dove si erano svolti tanti avvenimenti importanti.
I personaggi non sono così caratterizzati e secondo me potrebbero vivere in qualsiasi città italiana e la storia potrebbe essere ambientata ovunque. Ci sono argomenti per i quali tutti o quasi tutti concordano, anche senza conoscersi e senza sapersi spiegare perché.
Addentriamoci un po’ in “La legge del più forte”. È un romanzo nato di getto, o si tratta di un’idea covata a lungo prima di darle una forma definitiva?
Ho sempre pensato all’aborto come a qualcosa di terribile, perché una creatura inerme viene brutalmente uccisa proprio dalla persona in cui cerca rifugio e protezione. Di aborto ho sempre sentito parlare con molta superficialità e ho visto molte donne che, da Nord a Sud, vi ricorrevano ripetutamente anche per futili motivi, senza sapere di cosa si trattasse, ignorandone le conseguenze, anzi, ritenendolo una scelta progressista.
Poco dopo il mio arrivo in Piemonte, ho letto un articolo su un giornale locale che parlava di undicimila aborti in un anno, solo nella regione. Mi sembravano un po' troppi. Si diceva che quella cifra fosse gonfiata dalle donne che venivano dall'estero, ma basta discutere normalmente con le persone o recarsi negli ospedali, per rendersi conto che a interrompere la gravidanza sono le nostre adolescenti e le nostre casalinghe e che continuano a essere totalmente disinformate.
Come la mia protagonista, ho messo in discussione il pensiero convenzionale nel quale siamo immersi. Non mi è sembrato che fosse normale pensare all’interruzione di gravidanza come a qualcosa che rientra nella vita quotidiana, come a uno strumento di emancipazione o a una conquista di civiltà, perché le immagini che circolano tanto facilmente su internet, ad esempio, dimostrano che non è così. Gli strumenti di emancipazione per la donna sono altri e la civiltà risiede altrove. Mi sono chiesta perché la società sia così scioccamente votata all’individualismo da considerare un’altra vita in modo così banale come qualcosa da “tenere” o meno, e da rinunciare a quello che per natura ci rende felici per anteporvi ambizioni e valori effimeri, che celano e non ci permettono di gustare il meglio dell'esistenza. Mi sono chiesta se abbiamo veramente bisogno di tutto quello che possediamo e che consideriamo indispensabile o se invece sembra che i beni materiali non siano mai sufficienti e si riesca a trovare il denaro per tutto, tranne che per ciò che conta davvero.
Sono convinta che siamo liberi fino a quando non calpestiamo i diritti degli altri. Sì perché ripeto, non c’è nulla di civile in una pratica come l’aborto che considero invece un’ingiustizia - mascherata da progresso e da conquista di civiltà - garantita per legge, come lo sono stati molti diritti in passato. La legge ha sancito la prevaricazione dell’individuo più forte nei confronti di quello più debole. La legalizzazione dell’aborto è solo la drammatica e necessaria soluzione di una società che ha fallito nel trasmettere informazioni e consapevolezza, un argomento su cui si è dovuto legiferare per evitare danni maggiori. Certo è triste rendersi conto che, tutt’oggi, calpestare i diritti di chi è tanto facile da distruggere - a volte per affermare i propri - sia considerato da molti un diritto incontestabile. E spesso purtroppo è anche una scelta non ben ponderata.
Uno Stato civile deve dare la possibilità di vivere, e di vivere degnamente, e deve garantire le pari opportunità a tutti, alle donne così come a chi vive dentro di loro. Ma oggi si uccide, si ruba ancora, e per molti percepire debolezza negli altri è un motivo per prevaricarli e affermare se stessi. Ne deduco che intravediamo la vera civiltà, ma viviamo ancora in un mondo in cui questa è solo approssimativa.
So che è un tema di difficile soluzione perché tutti potrebbero esporre le proprie esperienze e le proprie ragioni più o meno valide. Ma io non mi considero la detentrice di una verità assoluta, le mie idee sono condivisibili o meno, ci sono questioni molto personali che oggi possono essere affrontate solo con una forte fede. Il mio vuole essere un invito energico e deciso, a tutte le donne disposte a riflettere, soprattutto a quelle che pensano che l’aborto sia un diritto, ma che, pensandoci bene avrebbero una pur remota possibilità e tanti buoni motivi per fare nascere normalmente un figlio che pensano di uccidere, proprio perché anche quello è un figlio.
Parlare dell’aborto è una scelta coraggiosa. Posso chiederle se c’è un motivo particolare che l’ha spinta ad accostarsi a questa tematica?
Come ho già detto, è un argomento che mi ha sempre toccata nel vivo. Io ritengo che la parte della vita che trascorriamo nel grembo materno, sia una fase della nostra esistenza come essere bambini o adolescenti. Tutti siamo stati embrioni e ogni essere umano è unico e irripetibile. Se qualcuno mi dimostrasse scientificamente che non è vero, io cambierei idea. Per me l’aborto rientra tra i fatti umani che vanno superati. Oggi più che mai ci sono valide alternative all’interruzione di gravidanza. È ora che la medicina, la ricerca, riguardino anche la cura e la salvaguardia dell’embrione. Il futuro è informare seriamente le donne sulla realtà dell’aborto e sulle soluzioni alternative, e sperare che i nostri figli guardino a noi e all’interruzione di gravidanza con lo stesso atteggiamento con cui noi pensiamo alla schiavitù o all’abbandono dei bambini, che pure si praticava in passato.
“Molte donne si chiedono: metter al mondo un figlio, perché? Perché abbia fame, perché abbia freddo, perché venga tradito ed offeso, perché muoia ammazzato alla guerra o da una malattia? E negano la speranza che la sua fame sia saziata, che il suo freddo sia scaldato, che la fedeltà e il rispetto gli siano amici, che viva a lungo per tentar di cancellare le malattie e la guerra.” (Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, Rizzoli 1975). Può commentare per noi questa frase?
Oriana Fallaci si è proposta di scrivere un’opera d’arte, io non sono stata così ambiziosa, volevo solo divulgare un messaggio e renderlo recepibile e fruibile da tutti, soprattutto dagli adolescenti.
Detto questo, rispondo che nessuno di noi può cambiare il mondo, ma ognuno di noi può fare qualcosa, con la propria debolezza, con quelle che pensa siano capacità scarse o inesistenti, ognuno può fare qualcosa che non deve essere necessariamente qualcosa di grandioso e senza il timore di essere deriso. Tutte le persone “normali” vengono derise e insultate, anche i grandi capi di stato, anche i geni. E qui potremmo dilungarci in esempi. Ad avere problemi, ad essere meschino e intriso di pochezza, non è chi viene deriso, ma chi deride.
E quando si incontrano delle difficoltà, io sono convinta che servano a migliorarci. Dirò anche una verità più banale, ma non meno vera. Se i nostri antenati si fossero preoccupati di tutto ciò che ha citato la grande Fallaci, ci saremmo estinti da tempo. Forse non avevano le conoscenze che abbiamo oggi, ma la tradizione orale tramanda storie di guerre ed episodi terribili. Tra l’altro tutti sapevano che il parto era una delle cause principali di decesso e che il tasso di mortalità era altissimo e qui tutti potremmo citare dei detti popolari che abbiamo sentito ricorrere spesso.
Voglio aggiungere ancora che in ciò che è vita c’è voglia di vivere. Anche le persone “normali” sono infelici per i motivi più svariati perché il senso di insoddisfazione, l’infelicità provengono soprattutto da uno stato d’animo interiore, forse ci si è sentiti rifiutati o si ha una visione sbagliata del mondo e dell’ordine delle cose, c’è confusione, i motivi possono essere i più diversi. Ma tanta gente continua a essere felice pur superando circostanze che schiaccerebbero altri. Forse basterebbe solo mettere un po’ di ordine in questa società scettica che si ostina a dire “non credo”, “non esiste” mentre la nostra conoscenza è ancora così limitata.
Adesso, una curiosità: tra tutti gli “antagonisti” di Francesca, la giovane protagonista del romanzo, chi ritiene il più biasimevole?
Sorrido a questa domanda perché credo che tutti conoscano già la risposta. Samuel potrebbe essere il personaggio più negativo, ma forse rappresenta l’indifferenza ed è un personaggio che ho costruito provando indifferenza verso di lui. La madre mi sembra la più biasimevole. È quella che teme di più il giudizio del vicino di casa, è anche quella più ignorante che pensa che le stelle cadenti siano stelle vere, ed è la maggiore sostenitrice dell’aborto, non perché sappia cosa sia, ma perché ne ha sentito parlare bene e soprattutto perché gli altri non devono vedere, né sapere. Come ha fatto notare lei, Francesca è più matura della madre e nonostante l’età è riuscita a fare qualcosa che tutti dovremmo fare, cioè rielaborare, confrontare, mettere in discussione le proprie conoscenze e le proprie idee a prescindere dai propri interessi e dalle ideologie in cui ci identifichiamo.
Questo è il suo romanzo d’esordio: com’è stato avvicinarsi al mondo dell’editoria?
Questa è la domanda più difficile. Scrivo da sempre e mi sono cimentata in problematiche che non interessavano i miei coetanei, ma non ho mai avuto il coraggio di pubblicare. Poi ho provato e devo dire che ci vuole molta pazienza e bisogna saper aspettare un editore capace e onesto.
Ha altri progetti? Se sì, può anticiparci qualcosa?
Sto lavorando a un altro romanzo più ambizioso, ma sempre ricco di riflessioni sulla vita e sulla realtà. Ho in mente anche un saggio, che però in questo momento mi sembra lontano dal concretizzarsi.
Allora, a presto! E grazie di cuore per aver risposto a queste domande, a nome di tutti i lettori di CriticaLetteraria.
Ringrazio ancora Critica Letteraria e tutti i lettori che sono riusciti a leggermi fino a qui.
in
intervista
Laura Ingallinella
Maria Gangemi
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