“Il Salotto”, il nostro spazio dedicato agli incontri con gli scrittori, oggi intervista Gianfranco Cambosu, l'autore di Pentamerone barbaricino, un thriller di ambientazione sarda, la cui recensione è disponibile sul nostro blog (clicca qui per leggere la recensione).
Ciao Gianfranco, è un piacere poterti intervistare per il nostro blog! Vorrei innanzitutto chiederti quando e come è nata la tua passione per la scrittura: quand'eri bambino, da adulto, o un evento particolare della tua vita ha fatto nascere in te questa passione?
Ciao e grazie a te, innanzi tutto. E’ difficile dirti quando sia nata questa passione. Già da ragazzo avevo iniziato a scrivere poesie senza troppe pretese, ma alla prosa mi sono accostato che ero poco più che ventenne. Avevo dovuto interrompere gli studi universitari per il servizio militare e trascorrevo molte ore nell’ozio più totale. Il confronto con una realtà così diversa da quella universitaria (i turni di guardia, le marce, le incombenze generali) mi aveva indotto a osservare con attenzione tic, nevrosi, modi di agire e ambienti. Ne erano scaturiti dei brevi racconti, che non erano semplicemente un modo per riempire quelle ore. Avevo, piuttosto, un bisogno impellente di dare un senso a ciò che vedevo scorrermi attorno. Ripresi a scrivere qualche anno dopo, in prossimità della laurea. Forse il lavoro di tesi, coi suoi criteri di organicità e coerenza, mi spinsero a considerare la scrittura come un modo di approcciarmi alla mia età. Ma anche allora tutto procedeva senza obiettivi. Dopo la laurea, con le prime esperienze d’insegnamento e l’intensificarsi delle mie letture (Moravia, Miller, Maupassant e tanti altri), cominciai a scrivere con più regolarità. Finché, quasi dieci anni fa, acquistai il mio primo computer e diedi una sistemazione a una serie di ministorie.
La tua professione è quella dell'insegnante: cosa pensano i ragazzi dei tuoi libri? Hai mai pensato di scrivere qualcosa che possa riguardare direttamente la loro condizione?
Insegnare lettere ti porta inevitabilmente a un confronto serrato con i ragazzi. Quando tre anni fa uscì il mio primo romanzo, Menzogna dell’arca (che due anni prima era stato finalista del Premio Deledda), i miei alunni manifestarono subito una forte curiosità. Era la prima volta che smettevo gli abiti del professore di Italiano e Latino per indossare quelli di una figura a metà tra l’istituzionale e l’irregolare. Quando poi lessero alcune sequenze del testo, con un linguaggio non sempre edificante, capirono che avevo anche una dimensione privata e mi guardarono con occhi diversi. Fu una bellissima esperienza. Tempo dopo mi è capitato di lavorare a una storia ambientata nel mondo della scuola, ma al momento è stata interrotta.
Pentamerone barbaricino, il romanzo di cui è possibile leggere la recensione sul nostro blog, è un thriller ambientato in Sardegna. In realtà, le ambizioni dell'opera, soprattutto nella sua parte conclusiva, vanno oltre quelle di un romanzo d'azione. Nel finale il lettore è disorientato perché i buoni si confondono con i cattivi, perché tutti i personaggi si levano le maschere e si mostrano quali non erano apparsi. Che cosa hai voluto indicare con questa scelta, e ci sono autori letterari, o pensatori, a cui ti sei ispirato?
Quella del romanzo d’azione è una falsa prospettiva, o semplicemente solo un piano di lettura, perlomeno nelle mie intenzioni. Sin dall’inizio avevo avuto in mente una serie di opere, la prima delle quali si evince dal titolo stesso del mio romanzo, come tu hai giustamente colto nella tua recensione, ossia il Decameron di Boccaccio. Subito mi era venuto in mente di rovesciare i ruoli, riprendendo uno schema già adottato nel romanzo precedente. Se Boccaccio aveva voluto stabilire un confronto-scontro tra la condizione di dieci giovani nobili, d’animo e di condizione, e la realtà esterna segnata dal clima deleterio della peste, nel mio romanzo il lettore scopre che quella realtà non è tanto diversa da ciò che avviene dentro la banca, luogo principale dell’azione. E i miei protagonisti di nobile non hanno proprio nulla. Forse il mio obiettivo era ridisegnare il concetto di malvagità senza per questo trovare troppe attenuanti in chi delinque.
Una domanda diretta: chi sono Tinteri e Cadena, i due rapinatori? Nel senso, qual è il tuo atteggiamento nei confronti di questi personaggi? Perché pare di leggere nel romanzo, non un tono di pietas, di compassione, ma certamente un qualcosa di simile al rispetto, il riconoscimento di una dignità, la condivisione di una comune umanità, con le parole di Bernard Williams. Sembra di riconoscere l'idea che la differenza tra uomini e caporali non sta nei diversi gradi di disponibilità di risorse di potere, ma nella disumanizzazione che il potere porta con sé.
Direi che più che rispetto verso tipacci quali Tinteri e Cadena c’è una volontà di risalire all’origine di certe inclinazioni. Entrambi sono calati in contesti difficili, dove il degrado è già implicito nelle parole di un’anziana madre che esorta il figlio ad assoldare un killer per lavare del sangue già abbondantemente versato. Se non mi sono soffermato troppo su questi aspetti non è certo per la fretta di liquidare vicende di tal genere. Piuttosto ho ritenuto che attorno al crimine non si debba creare un clima di comprensione: ogni individuo, credo, ha la possibilità di voltare pagina, certo che alcune situazioni non aiutano. E’ anche vero che se si lavorasse meglio sulla prevenzione si potrebbe mitigare lo sviluppo di determinate situazioni criminose. La Scuola, in tal senso, potrebbe fare molto, se ci fossero più coraggio e volontà sul piano politico.
Tinteri e Cadena hanno avuto, sin da bambini, una vita senza scampo, disumana, perché privata di una reale possibilità di scelta autonoma, segnata dalla violenza come normalità, dalla miseria e dall'ottusità. In che misura il tuo raccontare riflette una Sardegna del passato? Ancora oggi in Sardegna vi sono sacche di miseria che escludono le nuove generazioni dalla possibilità di una vita autonoma?
Quella della Sardegna non è una realtà tanto diversa da altre presenti in Italia. Tant’è vero che con questa storia non ho voluto fare un “discorso sardo” ma universale, cercando di riflettere su un certo tipo di natura umana. Infatti ben due racconti, riportati per bocca della dottoressa Trentin, sono ambientati nella Torino degli anni settanta, ma hanno a che fare con guasti sociali di cui ci hanno parlato le cronache anche recentemente: mi riferisco alle sette sataniche. Indubbiamente in Sardegna permangono situazioni di degrado ereditate dal passato, conseguenti anche al mancato sviluppo di alcuni settori dell’economia, ma accanto a quelle ne esistono altre di avanguardia e di grande civiltà. Non voglio, chiaramente, nascondermi dietro un dito: il problema delle faide che insanguinano alcuni paesi della Barbagia esiste almeno dagli anni sessanta e ha avuto poche battute d’arresto. Dare la colpa solo al contesto e alle mancate occasioni di crescita culturale rappresenterebbe una visione parziale, e non spiegherebbe come mai persone che coabitano con certi individui ne abbiano preso le distanze.
Che cosa hai provato ad arrivare finalista al Premio Deledda (2004) e a vincere il premio Romanzi criminali?
Estasi, euforia e responsabilità per il futuro. Desiderio di evitare le banalizzazioni e le repliche.
Quali sono i tre libri la cui lettura per te è stata una rivoluzione, un cambiamento di prospettive? Visto il periodo natalizio, che libro consiglieresti ai nostri lettori per le imminenti vacanze? E infine, ci puoi svelare qualcosa del tuo prossimo romanzo?
Avrei un elenco non breve da farti. In primis, direi Gli indifferenti di Moravia. Aggiungo senz’altro Cecità di José Saramago e Il petalo cremisi e il bianco di Michel Faber. Se me ne fai aggiungere un altro, Doppio sogno di Arthur Schnitzler. Per Natale suggerisco un classico della letteratura americana, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury e un romanzo uscito meno di due anni fa, La strada di Cormac Mc Carty.
Del prossimo romanzo, su cui ho lavorato degli anni (terminandolo prima di scrivere Pentamerone barbaricino), posso dire che è un giallo non classico ambientato nella Genova del 2001.
Grazie Gianfranco per averci dato la possibilità di intervistarti. Noi, lettori e recensori di Criticaletteraria, aspettiamo il tuo prossimo libro!
Grazie a te e a Critica Letteraria per lo spazio e l’attenzione che mi avete concesso. E buon lavoro.
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