di Philip Roth
Einaudi, Torino, 2009
Traduzione di Vincenzo Mantovani
pp. 645
euro 19.50
Nathan Zuckerman fa la sua prima apparizione in My life as a man come alter ego del protagonista, lo scrittore Peter Tampod. Ben presto, però, guadagnerà il centro della scena comparendo in sette romanzi di Philip Roth, quattro come protagonista e tre come narratore.
Zuckerman, corposo volume pubblicato nel 2009 dalla Einaudi, racchiude i primi tre episodi più un epilogo (tutti pubblicati prima singolarmente) della saga a lui dedicata. Un personaggio costruito ad arte, strutturato con sapiente perizia letteraria ma umanamente riconoscibile, perfetto alter ego del suo creatore. Roth, attraverso la sua storia, affronta un’analisi approfondita e dettagliata del problema dell’identità ebraica nel dopoguerra in America e dello sviluppo di una personalità artistica non conforme alle prescrizioni, ai divieti e alle regole della sua appartenenza religiosa, familiare e territoriale. Una disamina attenta e precisa, priva di pedanteria e psicologismo, che prende in considerazione il risvolto umano e sociale della questione, con lo stile arguto, ironico e dissacrante a cui il grande scrittore americano ha abituato il lettore.
La trilogia si apre con Lo scrittore fantasma (1979), il racconto della notte in cui Nathan Zuckerman, giovane scrittore di belle speranze e grandi ambizioni, si trova ospite nell’isolata casa di colui che ritiene essere il sommo narratore della sua epoca, E.I. Lonoff, un’esperienza che segnerà le sue sorti letterarie. Nathan in persona narra il suo incontro con Lonoff, stoica personalità che ha dedicato la sua esistenza alla scrittura, caposaldo di tutta una vita, punto di partenza e di arrivo; parla della difficoltà e della paura di trovarsi di fronte a tale genio, della voglia di fare un’ impressione positiva e dell’amore filiale che sente per lo scrittore, sentimento puro ma non adeguato ad un ragazzo che tanto deve alla sua famiglia. Racconta di Hope, la moglie di Lonoff, compagna paziente di vita, docile e remissiva, ormai sull’orlo della follia. C’è anche Amy Bellette, ambigua e sensuale profuga che Lonoff ha salvato dalle tragedie della guerra. Il finale è sospeso, uno strattone alla decennale e immobile tranquillità di casa Lonoff, preludio di ciò che Roth ha in mente per il suo personaggio. Un primo romanzo che anticipa, come una lunga introduzione, le vicende future del protagonista.
Passano più di dieci anni e il Nathan di Zuckerman scatenato (1981) ha finalmente ottenuto il successo, è divenuto un grande scrittore, ha guadagnato un milione di dollari e ha anche lasciato la sua quarta moglie. Ma non tutti amano il suo scandaloso capolavoro Carnovsky: la famiglia, i critici, l’establishment costituito e anche qualche pazzo che minaccia di rapirgli la madre. Forse non piace più neanche a lui. La sciocca identificazione dei più tra lo scellerato Gilbert Carnovsky (futuro Alexander Portnoy) e il suo autore, il riservato e schivo Zuckerman, gli causa molte più grane di quanto si aspettasse, neanche la sua nuova vita da ricco e ambito scapolo riesce a alleviare il suo disagio, anzi, contribuisce solo ad aumentare il senso di inadeguatezza e di triste trionfo. L’uomo Zuckerman è schiacciato dal peso del suo genio e mentre assiste impotente alla morte di suo padre, si rende conto di aver perso se stesso, la sua identità di uomo e la sua dignità di ebreo.
Nel passaggio tra i due romanzi la narrazione passa dalla prima alla terza persona, l’autore taglia il cordone ombelicale e prende fermamente le distanze dal suo personaggio: il risultato è un dipinto a tinte forti, impietoso e tragicomico, di un uomo di mezza età, frustrato e infelice, adesso come prima rinchiuso nella torre d’avorio del suo talento. La vocazione letteraria lo ha costretto lontano dalle sue appartenenze, dalla sua terra, dalla sua famiglia e incapace di dedicarsi a qualcosa di serio che non sia la scrittura. L’isolamento necessario ad alimentare il sacro fuoco dell’arte sta minando alla base la fonte della sua ispirazione. Il suo capolavoro lo ha prosciugato all’interno e la cruda realtà al di fuori porta a compimento l’opera.
Perderà poi anche sua madre, il colpo di grazia ad un uomo già abbondantemente distrutto dalla nuova forma che hanno preso i suoi demoni: nel terzo episodio, La lezione di anatomia (1983), è affetto da una strana algia che gli paralizza dolorosamente collo, spalle e braccia e che nessuno è riuscito a curare. Neanche la sua personale terapia a base di vodka, Percodan, marijuana e quattro sostitute mogli funziona. Lui non funziona più. Il dolore è centro nevralgico della sua esistenza, mezzo di comunicazione del senso di colpa, della frustrazione, dell’inadeguatezza. Il dolore è la ribellione dello spirito allo schema impostosi dallo scrittore – l’artista, non l’uomo - che non lo accetta ma di cui non riesce a liberarsi. Forse assomiglia a Carnovsky più di quanto sia disposto ad ammettere. Il dolore diviene espiazione e riscatto morale dopo che il suo capolavoro ha ucciso suo padre, sua madre, il suo matrimonio e che adesso sta distruggendo anche il suo talento.
E ora che non riesce più a scrivere, tutto viene alla luce con sconcertante chiarezza. Unica soluzione è voltare pagina e iniziare una nuova vita.
Il volume si conclude con un breve racconto, L’orgia di Praga (1985). Nathan si trova nella Repubblica Ceca per tentare il recupero di un manoscritto, un’altra occasione per ritrovare e glorificare le sue origini e per un riscatto morale. Gli appunti di viaggio di Zuckerman sono l’occasione per una profonda e realistica riflessione sulle contraddittorie possibilità artistiche e umane sotto il regime comunista, in una città in cui tutto è concesso ma niente è permesso.
Un volume importante e complesso, una lettura impegnativa che chiede tanto al suo lettore ma che rende più di quel che pretende: la meraviglia dell’architettura narrativa e psicologica del protagonista, un uomo che tenta di barcamenarsi tra fatue vittorie e blande sconfitte, guardando alla sua storia con distacco e giudicandosi senza clemenza.
Il tutto ovviamente raccontato con grande stile dal maestro della narrativa contemporanea.
Valeria Medori
Einaudi, Torino, 2009
Traduzione di Vincenzo Mantovani
pp. 645
euro 19.50
Nathan Zuckerman fa la sua prima apparizione in My life as a man come alter ego del protagonista, lo scrittore Peter Tampod. Ben presto, però, guadagnerà il centro della scena comparendo in sette romanzi di Philip Roth, quattro come protagonista e tre come narratore.
Zuckerman, corposo volume pubblicato nel 2009 dalla Einaudi, racchiude i primi tre episodi più un epilogo (tutti pubblicati prima singolarmente) della saga a lui dedicata. Un personaggio costruito ad arte, strutturato con sapiente perizia letteraria ma umanamente riconoscibile, perfetto alter ego del suo creatore. Roth, attraverso la sua storia, affronta un’analisi approfondita e dettagliata del problema dell’identità ebraica nel dopoguerra in America e dello sviluppo di una personalità artistica non conforme alle prescrizioni, ai divieti e alle regole della sua appartenenza religiosa, familiare e territoriale. Una disamina attenta e precisa, priva di pedanteria e psicologismo, che prende in considerazione il risvolto umano e sociale della questione, con lo stile arguto, ironico e dissacrante a cui il grande scrittore americano ha abituato il lettore.
La trilogia si apre con Lo scrittore fantasma (1979), il racconto della notte in cui Nathan Zuckerman, giovane scrittore di belle speranze e grandi ambizioni, si trova ospite nell’isolata casa di colui che ritiene essere il sommo narratore della sua epoca, E.I. Lonoff, un’esperienza che segnerà le sue sorti letterarie. Nathan in persona narra il suo incontro con Lonoff, stoica personalità che ha dedicato la sua esistenza alla scrittura, caposaldo di tutta una vita, punto di partenza e di arrivo; parla della difficoltà e della paura di trovarsi di fronte a tale genio, della voglia di fare un’ impressione positiva e dell’amore filiale che sente per lo scrittore, sentimento puro ma non adeguato ad un ragazzo che tanto deve alla sua famiglia. Racconta di Hope, la moglie di Lonoff, compagna paziente di vita, docile e remissiva, ormai sull’orlo della follia. C’è anche Amy Bellette, ambigua e sensuale profuga che Lonoff ha salvato dalle tragedie della guerra. Il finale è sospeso, uno strattone alla decennale e immobile tranquillità di casa Lonoff, preludio di ciò che Roth ha in mente per il suo personaggio. Un primo romanzo che anticipa, come una lunga introduzione, le vicende future del protagonista.
Passano più di dieci anni e il Nathan di Zuckerman scatenato (1981) ha finalmente ottenuto il successo, è divenuto un grande scrittore, ha guadagnato un milione di dollari e ha anche lasciato la sua quarta moglie. Ma non tutti amano il suo scandaloso capolavoro Carnovsky: la famiglia, i critici, l’establishment costituito e anche qualche pazzo che minaccia di rapirgli la madre. Forse non piace più neanche a lui. La sciocca identificazione dei più tra lo scellerato Gilbert Carnovsky (futuro Alexander Portnoy) e il suo autore, il riservato e schivo Zuckerman, gli causa molte più grane di quanto si aspettasse, neanche la sua nuova vita da ricco e ambito scapolo riesce a alleviare il suo disagio, anzi, contribuisce solo ad aumentare il senso di inadeguatezza e di triste trionfo. L’uomo Zuckerman è schiacciato dal peso del suo genio e mentre assiste impotente alla morte di suo padre, si rende conto di aver perso se stesso, la sua identità di uomo e la sua dignità di ebreo.
Nel passaggio tra i due romanzi la narrazione passa dalla prima alla terza persona, l’autore taglia il cordone ombelicale e prende fermamente le distanze dal suo personaggio: il risultato è un dipinto a tinte forti, impietoso e tragicomico, di un uomo di mezza età, frustrato e infelice, adesso come prima rinchiuso nella torre d’avorio del suo talento. La vocazione letteraria lo ha costretto lontano dalle sue appartenenze, dalla sua terra, dalla sua famiglia e incapace di dedicarsi a qualcosa di serio che non sia la scrittura. L’isolamento necessario ad alimentare il sacro fuoco dell’arte sta minando alla base la fonte della sua ispirazione. Il suo capolavoro lo ha prosciugato all’interno e la cruda realtà al di fuori porta a compimento l’opera.
Perderà poi anche sua madre, il colpo di grazia ad un uomo già abbondantemente distrutto dalla nuova forma che hanno preso i suoi demoni: nel terzo episodio, La lezione di anatomia (1983), è affetto da una strana algia che gli paralizza dolorosamente collo, spalle e braccia e che nessuno è riuscito a curare. Neanche la sua personale terapia a base di vodka, Percodan, marijuana e quattro sostitute mogli funziona. Lui non funziona più. Il dolore è centro nevralgico della sua esistenza, mezzo di comunicazione del senso di colpa, della frustrazione, dell’inadeguatezza. Il dolore è la ribellione dello spirito allo schema impostosi dallo scrittore – l’artista, non l’uomo - che non lo accetta ma di cui non riesce a liberarsi. Forse assomiglia a Carnovsky più di quanto sia disposto ad ammettere. Il dolore diviene espiazione e riscatto morale dopo che il suo capolavoro ha ucciso suo padre, sua madre, il suo matrimonio e che adesso sta distruggendo anche il suo talento.
E ora che non riesce più a scrivere, tutto viene alla luce con sconcertante chiarezza. Unica soluzione è voltare pagina e iniziare una nuova vita.
Il volume si conclude con un breve racconto, L’orgia di Praga (1985). Nathan si trova nella Repubblica Ceca per tentare il recupero di un manoscritto, un’altra occasione per ritrovare e glorificare le sue origini e per un riscatto morale. Gli appunti di viaggio di Zuckerman sono l’occasione per una profonda e realistica riflessione sulle contraddittorie possibilità artistiche e umane sotto il regime comunista, in una città in cui tutto è concesso ma niente è permesso.
Un volume importante e complesso, una lettura impegnativa che chiede tanto al suo lettore ma che rende più di quel che pretende: la meraviglia dell’architettura narrativa e psicologica del protagonista, un uomo che tenta di barcamenarsi tra fatue vittorie e blande sconfitte, guardando alla sua storia con distacco e giudicandosi senza clemenza.
Il tutto ovviamente raccontato con grande stile dal maestro della narrativa contemporanea.
Valeria Medori
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