di Giuseppe Paternò di Raddusa
Il docufilm "Auguri don Gesualdo", per la regia di Franco Battiato, è stato presentato in anteprima a Catania il 29.03.10.
La legge delle buone recensioni, ammesso che ne esista una, preclude certamente (perlomeno a coloro i quali vogliono prodigarsi in lavori di critica o presunta tale validi e pertinenti) la condizione di inferiorità del recensore rispetto all’opera analizzata . Si possono vieppiù scorgere tracce di profondo rispetto del primo nei confronti della seconda in quanto generata da una mente a sua volta assai degna di stima, ma difficilmente si può trovare la totale devozione aprioristica nei confronti di chi si trova ad esser recensito. Probabilmente perché verrebbe a mancare quella fiaccola santa che in fondo costituisce il bello dell’analizzare un’opera d’arte, sia essa un libro, un quadro o un film.
Ribaltando e distruggendo questo ultimo assunto pongo me stesso come assoluto detentore di pura inferiorità rispetto a due personaggi come Franco Battiato e Gesualdo Bufalino in relazione al film che il primo ha girato per celebrare (che termine orribile, ma mi sia concesso: non è una vera recensione) il secondo.
Sul primo non posso dire più di quello che giornalmente il retaggio di tutta la sua opera cantautoriale non riesca ad esprimere; chiedere a qualsiasi catanese che parta da un livello culturale medio per credere.
Partiamo da un assunto di base: Auguri don Gesualdo è sicuramente il film migliore di Franco Battiato. Lo è perché alla genialità dell’artista catanese si mescola -dando vita ad uno sposalizio dolce, colorato e dignitoso – l’ universo delle parole umide e pericolose di Gesualdo Bufalino.
Grazie a Battiato le intenzioni, i dubbi e soprattutto l’infinita nuova codificazione di un tipo di scrittura turgido e affatto piatto, come se si trattasse di colline soffici ma ugualmente rigorose, vengono riassunte in maniera lieve e delicata; un ritratto confidenziale ma non per questo incapace di mostrare quelle che erano le contraddizioni e gli interrogatori feroci e cosmici che Bufalino infliggeva a se stesso, quegli interrogatori che hanno reso così fervida la sua scrittura, così impaziente di essere sviscerata e adulata, senza mezze misure di troppo. Il regista, coadiuvato dalla solida sceneggiatura di Manlio Sgalambro, fa danzare la macchina da presa così da poter afferrare con signorilità gli antichi sospiri del comisano che trovò inaspettata fama a sessant’anni. M’aspettava una vita nuda, uno zero di giorni previsti, senza una brace né un grido, scriveva in Diceria dell’Untore, ma questa non è che una perla tra tante perle volte a smascherare il costante logoramento di vite difficili alla mercede di giorni insostenibili, permettendosi perfino di inserire l’inglese e di rimaneggiare Shakespeare (“Riessere, this is the question”), addirittura!, in un romanzo di contesto siculo che però dei banali folklorismi da secoli abbarbicati alla nostra isola non presenta nemmeno una traccia. E lo dice lo stesso Bufalino in un’intervista d’archivio per la RAI, “ con la Sicilia ho un rapporto doppio, contraddittorio..” come a sottolineare una forzatura di tutti nel bloccare le sperimentazioni e le infinite gamme di espressione auspicabili per la sua terra d’origine. Attraverso le testimonianze di amici e studiosi (Nunzio Zago, Elisabetta Sgarbi, Antonio Di Grado, Piero Guccione, Francesca Caputo, Matteo Collura) rivive la costante tensione emotiva che ha spinto Bufalino a creare i suoi universi rotondeggianti di parole barocche, quella tensione che lo ha mosso verso la ricerca, la sperimentazione, lo studio. La forza che lo attirava verso nuove possibilità di utilizzo per la scrittura in ogni sua forma, quasi cinetico nel non voler perdere nemmeno un piccolo frammento di quel dolce profitto garantito dalla scrittura e dai suoi innumerevoli campi di applicazione, amante di una sibillina perfezione che coinvolge processi di cancellature (che tanto amava) e modifiche continue.. Insomma, tutto fuorché –come purtroppo detta la moda odierna- scrittura come terapia o, peggio ancora, come sfogo di rabbie e impulsi repressi.
Sarebbe inoltre oltraggioso mettere da parte l’amore per le immagini, per il cinema di un certo tipo; lieve, soprattutto, Lubitsch e Howard Hawks ma anche Welles, Renoir e Antonioni, Bette Davis e Alida Valli.
E quando la cinepresa di Battiato circonda e fa pressione attorno alle strade di Comiso incitandole al ricordo ecco che il regista viene come posseduto dallo spirito di Eric Rohmer, una delle ultime infatuazioni cinematografiche di don Gesualdo, come a rendere omaggio al bagaglio culturale, con grazia e delizia, di un grande uomo e di un singolare, e fino ad adesso unico, scrittore universale. Quando, stretto fra le gambe il fucile, col piede sul cane e fra le labbra la canna, udrò come un grido di Dio il fragore dello sparo nel silenzio dell’universo.
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