L’ ultimo romanzo di Tiziano Terzani si inscrive in una serie di prove orientate a creare un corpus composito, una summa della lunga carriera giornalistica che vide i suoi esordi tra la Normale di Pisa e la Columbia University di NY e che lo portò successivamente ad affermarsi con la collaborazione a “L’ Espresso”, “Il Corriere della Sera” e “Der Spiegel”. A proposito della sua attività presso la nota testata tedesca, così si esprime l’ autore: “scrivi una cosa invece di un’ altra e sposti l’ opinione pubblica- questa mi pareva una grande missione”. Il giornalismo inteso come vocazione e potere, (l’ idea del “quarto potere” trasposta dalla cinematografia di Orson Welles), è legata a quella dell’ avventura fuori da ogni schema o ordine sociale; è “viaggiare per il mondo alla ricerca della verità” perché “quella verità che andavo cercando era dietro ai fatti, era dietro al dietro dei fatti”. La verità senza pretese. Senza la finzione di un’ obiettività che all’ uomo, neppure al più imparziale, è dato conquistare… l’ idea di un giornalismo “di posizione” perché “se tu da un episodio tiri fuori delle emozioni, delle rabbie, e spieghi, allora credo che puoi aprire gli occhi a tanta gente e aiutarla a capire”.
Spostando l’ obiettivo dal Vietnam alla Cina, al Giappone e all’ India, indagando la realtà asiatica e poi quella sovietica e scrutando il sogno socialista, il nostro fiorentino cosmopolita passa in rassegna gli eventi in cui furono coinvolte le grandi potenze mondiali nel secolo appena trascorso in un intenso dialogo col figlio. Dialogo a tratti serrato, a tratti incline al monologo o con concessioni alla forma intima e privata della lettera, quasi una confessione, un testamento spirituale in cui il “tu” dell’ interlocutore è marginalmente chiamato ad intervenire pur essendone destinatario privilegiato. E in questo “tu” non si incarna solo il figlio Folco, (erede del padre come di quella vita che continua a pulsare, che prosegue nonostante la morte dell’ individuo), ma ogni lettore che si sforzi di capire il senso e la necessità della storia stessa. “Se non capisci la storia non capisci l’ oggi. Se fai la cronaca racconti delle balle, racconti quello che vedi al microscopio quando invece ci vuole il cannocchiale. La formazione di un giornalista non è certo facile ed è per questo che sono contro tutte le scuole di giornalismo. […] Ci vuole una preparazione eclettica e quella te la devi fare da solo con una cultura che viene dalla storia, dall’ economia e che non impari dalla facoltà di giornalismo. E’ assurdo andarci, è come andare a scuola di poesia. Che impari? Chi ti insegna a fare il poeta?”
A Terzani invece il giornalismo lo insegnarono il soggiorno alle isole Curili, la guerra in Vietnam, la liberazione di Saigon, il crollo dell’ URSS e la Cina post- maoista, il credo di chi affermava “aiutate l’ India a conservare la sua innocenza e l’ India vi aiuterà a sopravvivere”, il senso d’ alienazione sui treni ad alta velocità di una megalopoli come Tokyo e la convinzione che per essere utili e dare voce a chi non può permettersi di parlare sia indispensabile essere provocatori verso il “Potere”. Perché il tentativo paradossale del potere è quello di creare un “uomo nuovo” con esigenze asservite ai propri scopi piuttosto che rendere le esigenze del potere funzionali ai traguardi dell’ uomo nuovo. “Ma c’ è una natura umana che è individualista, che è egoista e che non accetta questa limitazione dei propri diritti, della propria libertà d’ espressione.” Come d’ altra parte “c’ è qualcosa di sacrilego nell’ idea di voler creare l’ uomo nuovo che è di tutti, tutti i rivoluzionari.” Non per questo Terzani va considerato un “restauratore” ma piuttosto un “super partes”, distante da fanatismi che tentano di rendere l’ uomo ciò che non è, sia volendolo abbrutire sia cercando di trasfigurarlo idealmente. “L’ uomo è quello che è, è il frutto di un’ evoluzione e non puoi fermare l’ evoluzione, come non puoi fermare l’ acqua che scorre nel fiume”.
La rilettura della propria esperienza con la consapevolezza di essere a un passo dalla fine, la morte per cancro, è tanto più sconvolgente quanto più è serena la contemplazione del tempo che resta… i discorsi di Terzani sono intrisi di quell’ annichilimento del desiderio proprio della dottrina tibetana e delle leggi di Buddha. Si ha paura della morte, sostiene lo scrittore, perché si ha paura di perdere tutto ciò che si desidera. Ma quando hai vissuto una vita intensa, vedendo cose che a pochi è concesso vedere, e sei sopravvissuto, dopo aver sfiorato morti atroci, e hai ricevuto il dono di restare per raccontarlo, per scriverlo, per farne storia, sembra di non poter desiderare più niente. E non si teme più di perdere niente. Il cerchio si chiude. E un cerchio è il disegno tracciato nella penombra di una cella da un monaco zen in meditazione su quell’ Himalaya dove Terzani ha appreso, dopo tanto parlare e scrivere e urlare per dare voce a chi non l’ aveva, il valore del silenzio e del distacco; lì dove si impara a congedarsi dalla vita. “La fine è il mio inizio”: la vita d’ un uomo come un circolo, un eterno ritorno, una figura in cui si confondono l’ alfa e l’ omega.
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