Palace of the end
di Judith Thompson
Neo Edizioni, 2009
“Oh, popolo iracheno … Per Dio vi spoglierò come corteccia, vi legherò come un mucchio di rami, vi colpirò come cammelli smarriti …” Questo è ciò che disse al – Hadjadj, il governatore che arrivò in Iraq nell’anno 694. Questo è ciò che disse Saddam. Questo è ciò che dissero Bush e Tony Blair.
Palace of the end sembra l’Iraq destinato ad essere un luogo di abusi e infinita violenza, Palace of the end è il cuore quando si accorge di aver vissuto al buio. Si apre uno spazio di riflessione su se stessi e cresce l’urgenza di raccontare nella disperata ricerca di un consenso, di un conforto, di una liberazione. L’esperienza di questa terra insanguinata è ciò che lega Lynndie England, soldatessa americana famosa per gli abusi compiuti ad Abu Ghraib, David Kelly, biologo americano chiamato a testimoniare l’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq e Nehrjas Al Saffarh attivista irachena contro il regime ai tempi di Saddam. Il loro destino è stato quello di essere protagonisti di una tragedia e i loro monologhi sembrano essere tutto ciò che resta alla fine di questo viaggio, alla fine del mondo, quando l’uomo ha vinto nella gara indetta contro se stesso di dimostrare la crudeltà e il sadismo di cui è capace.
Il testo che nasce come pièce teatrale potrebbe ben essere l’epilogo di una consumata tragedia greca. I tre personaggi entrano in scena come attraverso uno specchio e prendono posto. Sembra riemergano dal mondo reale a quello della coscienza dove a nulla valgono fama, prestigio, amore. Quello della coscienza è un mondo spietato.
Judith Thompson parte da fatti di cronaca per costruire questi monologhi attraversati dalla tristezza di chi è consapevole di essere solo una pedina mossa dal potere (non a caso la scenografia presenta una scacchiera). I personaggi raccontano la loro vita come se la vedessero dall’esterno, come se stessero commentando quelle dannate immagini che non abbandonano mai le loro notti. Ogni monologo sembra una condanna dell’umanità ad un infinito ripetersi di giochi di potere e soprusi che alimentano scontri tra popoli e barbarie. Iconologia della barbarie sono le piramidi di uomini costruite nelle prigioni di Abu Ghraib, il suicidio (omicidio?) dell’ispettore per aver mentito al mondo e a se stesso, una madre violentata davanti agli occhi del figlio. Contro Saddam o contro l’America non fa differenza: si è deboli e soli contro il potere e per quest’affronto si paga. Così come si paga quando si è servi del potere. Mentre si legge Palace of the end si delinea piano una visione antropomorfa del potere che si diverte fingendo mille identità indossando ora una maschera ora un’altra.
I personaggi sono molto diversi tra di loro ed emerge anche dal linguaggio e dai toni di ogni monologo: rozzo e scurrile quello della soldatessa che cerca di reinventarsi un’identità, dolce e materno quello di Nehrjas che ci parla da morta, composto e a tratti isterico David Kelly. La scelta di usare monologhi conferma la vocazione teatrale dell’autrice e la sensazione è che il testo sia attraversato dalla necessità di prendere vita nella recitazione. Si avverte infatti qualcosa di incompleto che durante la lettura rende i personaggi a metà, è come se avessero bisogno di un corpo, una sorta di veicolo dell’autolesionismo che anche i nostri occhi hanno bisogno di vedere per scaricarvi le atrocità da loro compiute o subite.
Prima di uscire di scena i tre personaggi si incontrano, comunicano tra di loro mentre la musica copre le voci.
Maria Teresa Rovitto
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