Come le mosche d’autunno
di Irène Némirovsky
Adelphi, 2007 (I ed. 1931)
Irène Némirovsky può essere a ragione considerata una delle migliori scrittrici del secolo scorso. Nata nel 1903 a Kiev da una famiglia ebrea, trascorse l’infanzia in Russia e, allo scoccare della Rivoluzione bolscevica, fuggì con la famiglia in Francia dove visse gli anni più felici della sua vita sino alla Seconda Guerra Mondiale, soprattutto grazie alla passione per la scrittura, alla quale aveva iniziato a dedicarsi, già adolescente, in Russia. Morì ad Auschwitz nel 1942.
La scoperta dei suoi racconti e dei suoi romanzi mi ha consentito di gustare pagine che hanno la bellezza dei classici e che sono, per motivi differenti, molto vicine alle grandi letterature russa e francese che l’autrice ha amato e dalle quali, si nota chiaramente, è stata fortemente condizionata.
L’impronta dei primi racconti è di tipo introspettivo. Emerge da subito la spiccata tendenza all’analisi dei rapporti e delle dinamiche familiari, sorrette quasi da una volontà catartica di rielaborare, mediante la scrittura, il rapporto di risentimento e rancore che ha con la madre, donna incapace di donarle una qualsiasi forma di amore, interamente presa da sé stessa e dalla propria vanità. Questa tacita rivalità, il bruciante desiderio di vendetta si condensano nelle pagine di Il Ballo (1930), che sprigionano, con una forza dirompente, tutto il dolore di un sentimento filiale respinto e di una cieca ambizione materna.
La lente è ancora puntata sull’universo familiare in La moglie di Don Giovanni (1938), altro piccolo gioiello letterario, in cui, attraverso le lettere di un’anziana domestica, viene svelata la verità di una difficile storia familiare percorsa da vendetta e tradimenti.
Ma l’opera che ho trovato ancora più incisiva e completa, nelle sue sole cento pagine, è il breve romanzo Come le mosche d’autunno, pubblicato in Francia nel 1931.
Vi è racchiuso l’intero senso della scrittura della Némirovsky ed è percorsa da tutti i temi portanti della sua produzione: la memoria, i legami familiari, l’impetuosa aggressione dei tragici eventi storici che devastano e cancellano tutto, eccetto il ricordo di un passato felice: quello di una nobile famiglia russa travolta dalla rivoluzione e dalla guerra.
Perno del romanzo dal punto di vista strutturale ed emotivo è il personaggio di Tat’ jana Ivanovna, anziana nutrice che ha trascorso tutta la sua vita nella grande tenuta dei Karin e che commuove il lettore con il suo carico di sconfinata devozione nei confronti dei padroni. Ha visto nascere e crescere molti membri della famiglia Karin, ha assistito ogni anno all’arrivo puntuale dei rigidi inverni russi e delle successive stagioni, dedicando tutta se stessa alla cura di quel microcosmo di storie e di affetti, per cinquantuno anni. La scena con cui si apre il romanzo vede proprio Tat’ jana salutare in una notte di Natale i giovani Jurij e Kirill, in procinto di lasciare la famiglia e la casa dell’infanzia. È arrivata la guerra e lei sa che nulla sarà più lo stesso.
L’intreccio procede in maniera molto lineare,per quadri, singole scene a carattere quasi “teatrale”. La Némirovsky racconta la fuga della famiglia dalla Russia e il lungo viaggio che li porterà in Francia, con un’esplicita rievocazione della propria infanzia e un rimando a quella che è stata la propria fuga dal paese natale. L’anziana nutrice li ha serviti e amati per generazioni e adesso soffre terribilmente nel vederli girare a vuoto come le mosche d’autunno: « Camminavano avanti e indietro da una parete all’altra, in silenzio, come le mosche d’autunno, allorchè passati il caldo, la luce dell’estate, svolazzano a fatica, esauste e irritate, sbattendo contro i vetri e trascinando le ali senza vita ».
Tutti i personaggi, ma soprattutto quello dell’anziana donna e del padre Nikolaj Aleksandrovič, vivono il presente nel ricordo di ciò che è stato, degli anni trascorsi nella tenuta che ormai non potranno più tornare. Vicini ai personaggi di Cechov, sono caratterizzati da una cupa rassegnazione e da una dolente nota di malinconia, ma hanno la forza di cambiare, di adattarsi a un mondo nuovo fatto di automobili, cafè parigini, luci di lampioni e lunghi autunni che non passano mai, con il cuore colmo di una “malinconica serenità”. Ma Tat’jana, che continuerà a prendersi cura di loro, vivrà fino al suo ultimo giorno conservando nel luogo più profondo dell’animo l’immagine degli amati inverni russi, « Karinovka… La grande casa con le finestre immense da cui l’aria e la luce entravano a fiotti, le terrazze, i salotti, le gallerie che nelle sere di festa potevano ospitare comodamente cinquanta orchestrali ».
Ho ritrovato nel romanzo la dimensione realistico – introspettiva dei grandi maestri russi che porta la scrittrice a concentrarsi più sulle situazioni interiori dei personaggi che sugli sviluppi esteriori della vicenda; il tutto è unito a una scrittura essenziale, attraverso la quale la Némirosvky tratteggia i caratteri, in maniera formidabile, sin dall’inizio. Spiccata, inoltre, la vena lirica di alcune pagine.
Trovo che sia una scrittrice capace di esprimersi al meglio nella dimensione del racconto o del romanzo breve, attraverso la quale è stata in grado di creare delle strutture che definirei “perfette”, compiute, vicine, ripeto, alla grandezza dei classici. Ciò, anche e soprattutto, grazie alla capacità di analizzare i grandi temi universali della letteratura e della storia umana con una scrittura di forte potenza e capacità di penetrazione.
Claudia Consoli
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Claudia Consoli
Irène Némirovsky
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