A SANGUE FREDDO
Garzanti, 2005, Milano
Traduzione di Mariapaola Ricci Dettore
pp. 391
euro 16.00
"Tutto il materiale di questo libro non derivato da mia osservazione diretta o è stato preso da registrazioni ufficiali o è il risultato di colloqui con le persone direttamente interessate, e molto spesso di tutta una serie di colloqui che si sono protratti per un tempo considerevole". (Truman Capote)Chi ha a che fare con i libri, per studio, professione o semplicemente per passione, sa bene che molto spesso è difficile identificarne la collocazione stilistica. Questo è sicuramente successo a coloro che hanno letto questo magnifico capolavoro di Capote, definito dalla critica moderna come il capostipite del romanzo-verità, che quando fu pubblicato, nel 1966, indicò una nuova via di intendere il rapporto tra verità e scrittura, tra narrazione e giornalismo. A discapito del titolo, infatti, A sangue freddo è un libro che scotta, una lucida e profonda riflessione sull’imparzialità della cronaca e del giornalismo e sull’impotenza del romanzo di indurre le giuste considerazioni sulla complicata situazione della società americana contemporanea.
Il romanzo si snoda a partire da un fatto di cronaca avvenuto nel 1959 in un piccolo villaggio dell’Arkansas Occidentale, apparso in un breve trafiletto del New York Times. Quattro persone, un facoltoso coltivatore di grano, sua moglie e due dei loro figli sono stati trovati brutalmente assassinati nella loro casa. Legati e imbavagliati e poi uccisi a colpi di carabina, senza un motivo né un movente plausibili. La polizia brancola nel buio. Non ci sono tracce, non ci sono indizi, non ci sono testimoni. Mesi di indagini senza alcun risultato, fino a quando un detenuto deciderà di raccontare un’interessante storia che porterà finalmente gli investigatori a rintracciare, catturare e condannare alla giusta pena i due reali colpevoli: Dick Hickock, apparente bravo ragazzo, fino ad allora accusato solo di piccoli reati, e Perry Smith, uno starno tipo di origini metà irlandesi e metà cherokee, figura enigmatica e potente, un personaggio che intriga e commuove, di cui lo stesso Capote rimane fortemente affascinato.
Questo è un romanzo in cui la vicenda e l’epilogo sono noti fin dall’inizio ma che non manca di catturare il lettore in modo sorprendente. Non è solo lo stile di Capote, non è solo la suspence che nonostante tutto riesce a creare, è il solco che si scava nella mente del lettore, una traccia profonda che è racchiusa nel titolo, baricentro significante della narrazione in sé e dei tanti risvolti che in essa sono nascosti. Il sangue freddo è ciò che serve per massacrare una famiglia intera per pochi dollari, derivante dall’incapacità di comprendere la gravità delle proprie azioni a causa di situazioni sociali, familiari o educative non adeguate a creare nella mente dell’individuo il senso di responsabilità per sé e per gli altri. Il sangue freddo è quello di chi deve continuare a vivere in un paese segnato dal terrore e dalla paura. Il sangue freddo è quello necessario a chi indaga sul caso a rimanere imparziale e a non farsi prendere da smanie di facile vendetta per sedare la propria rabbia di fronte ad un fatto tanto inspiegabile. La condanna viene da sé e a ragione, ma ciò che fa fatica ad arrivare, ma è forse più urgente, è la comprensione. Capote cerca, conosce, intervista, parla e ascolta, rivive quello che è successo quella notte dal racconto di chi c’era e rielabora il tutto in modo dettagliato ma mai prolisso, da un punto di vista totalmente oggettivo e distaccato, senza partecipazione emotiva. Il risultato è un quadro completo e a tinte forti, in bilico tra alta letteratura e puro giornalismo, scevro da ogni tipo di giudizio. L’autore si concede solo umana pietà, lasciando che sia il lettore a dare il giudizio ultimo e decidere chi sia la vittima e chi il carnefice.
Semplicemente magnifico. Non stupisce che sia l’ultima opera portata a termine dal grande scrittore.
Valeria Medori
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