di Vitaliano Brancati
Milano, Oscar Mondadori, 2001 [1^ edizione: 1949]
con una nota di Leonardo Sciascia
pp. 269
€ 8,40
Capita spesso che le scelte politiche di un autore condizionino il suo futuro successo o che, al contrario, lo inabissino. Questo è accaduto a Vitaliano Brancati, mai perdonato per la sua (solo) iniziale militanza fascista, e a lungo affossato dalla critica più schierata, che ha offuscato la portata innovativa, talvolta eversiva, dei suoi romanzi. Oggetto di censura per i contenuti erotici disinibiti, le opere di Brancati sono state spesso interpretate riduttivamente, senza riflettere sulla disincantata visione del mondo dello scrittore siciliano.
Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale nella riduzione cinematografica di Bolognini (1960) |
A una prima lettura, infatti, si potrebbe pensare che il Bell’Antonio sia un romanzo incentrato sul protagonista e sulla sua sconvolgente impotenza sessuale. In realtà, il fatto è filtrato e ingigantito dagli occhi della Catania fascista degli anni ’30, omologata e ferocemente dominata dal potere del sesso. Così, Antonio, dapprima considerato un grande amante, ammirato da tutte le donne e invidiato dagli uomini, perde agli occhi della gente la sua dignità sociale, e l’intera famiglia subisce scherni e cattiverie. La stessa moglie di Antonio, Barbara Puglisi, sposatasi quando ancora ignorava le regole dell’erotismo, rifiuta la situazione e ripudia il marito, chiedendo l’annullamento. Annullamento che è una vera e propria ammissione pubblica di inettitudine, dal momento che il potere degli uomini veniva valutato sulla scorta della loro prestanza sessuale. Una potente vena satirica si spande su tutti i dialoghi dei paesani, ora caratterizzati da stralci di siciliano (tradotti a piè di pagina) ora riportati senza formule di passaggio, in botta-e-risposta spietati che colpiscono e feriscono a morte (si legga in particolare il capitolo X, che riassume i fatti attraverso il racconto colorito e crudele dei concittadini). Dunque, siamo di fronte a una società pettegola e primitiva, maligna e totalmente incurante della sensibilità altrui: ad Antonio non resta che chiudersi in una depressione acuta, dalla quale è difficile rialzarsi, perché non ci sono aiuti reali.
La famiglia, infatti, è tutt’altro che un sostegno: la madre, Rosaria, si ritira in un contrito dolore, colmo di angoscia e di sensi di colpa per aver domandato al Signore, anni prima, che Antonio non attirasse tanti sguardi femminili; il padre, Alfio, incredulo e aggressivo, considera un’onta la disgrazia del figlio, e non vuole accettare la verità. Violente liti, imprecazioni e blasfemie caratterizzano la difesa strenua (e ignorante, spesso quasi caricaturale) di Alfio, che arriva a disconoscere Antonio e a rifiutarne lo stato, battendosi contro i compaesani e insultando persino i religiosi che cercavano di farlo ragionare. Personaggio diametralmente opposto ad Alfio e unico supporto ad Antonio, lo zio Ermenegildo dimostra una comprensione senza limite, per quanto fatichi a comprendere la gravità della situazione. Più defilata e impenetrabile è la figura di Barbara: dapprima innamoratissima e timidamente attratta dal marito, in un secondo tempo esempio di freddezza e di determinazione, non esita a risposarsi con un barone locale.
Dunque, un’impietosa satira sociale accompagna e pungola continuamente il protagonista, affondando senza remore gli spilli nella sua carne indebolita dal disonore, fino a dissanguare ogni minima speranza di rifarsi una vita. Siamo di fronte a un romanzo di disperazione, quindi, e disperazione per una problematica che nel ’49 era ancora definita tabù. Non sorprende quindi che Il bell’Antonio sia stato considerato a lungo una lettura peccaminosa e disdicevole, come per ogni libro che sa abbassare dagli occhi il velo del più gretto conformismo, e che resta drammaticamente attuale anche a distanza di oltre sessant'anni.
Gloria M. Ghioni