Il sangue dei morti.
MIO FRATELLO MUORE MEGLIO
di Renzo Brollo, Cicorivolta Edizioni
La scrittura di Renzo Brollo è assai ardimentosa: preziosismi non rivelati, misteri allucinati e allucinanti, oscurità costanti e tradite.
Con Se ti perdi tuo danno aveva realizzato un’opera secca, ma ricca di intensità e passioni celate. Un romanzo che mi colpì davvero molto, incatenato in uno schema di solido stoicismo narrativo e di rabbia repressa in maniera intelligente e perturbante.
Mio fratello muore meglio, invece, si muove su piani del tutto differenti: insofferenza, emoglobina, noia. Quelle del protagonista, Giovanni (un plauso a Brollo: finalmente un Giovanni e non un Luca, un Matteo, un Andrea…), sono simpatetiche paranoie di un drogato da quattro soldi, di uno che si fa di LSD in ritardo di trent’anni e che non riesce a reggere il confronto con la sua santippea mater e, soprattutto, con il ricordo di un fratello morto troppo presto e che forse ha intasato, col suo sangue, la doccia di casa sua, che da un momento all’altro diventa veicolo di santità, meta di santi pellegrinaggi, templum di disonesti antilaicismi.
Brollo è uno che ha letto molto, e vivaddio riesce a dimostrarlo con arguzia. Crea e descrive un universo di bestie da soma che ruotano attorno al suo disadattato e inusuale protagonista, un manipolo di truffatori della domenica che succhiano sangue spietatamente e senza chiedere il permesso, scevri da ogni tipo di eleganza e sensibilità. Il sangue attira quanto il cinema e il teatro, spettacolarizza e unisce: Giovanni lo sa, e ne è perplesso ma, come da epilogo, piacevolmente “sorpreso”, quasi confortato. Non è un caso che ad aiutarlo nel suo processo di allontanamento dalle piastrelle della sua doccia macchiate di sangue siano una ragazza che non vede e un cane. Reietti mascherati da vittime che circolano cercando di umanizzarsi e di umanizzare un mondo che in fondo li respinge. Ci vuole stile, per morire; ma aggiungo anche che ci vuole stile nello scrivere. E Brollo apprende la lezione americana di Paul Auster, di Bukowski, di Palahniuk e la immerge nelle glaciali terre d’Italia, dove il noir è troppo spesso macchiettistico e “formale”, per signorine. Certo, il romanzo non ha la stessa forza di Se ti perdi tuo danno, ma il suo autore dimostra di avere un’intelligenza non comune e, nonostante la (voluta) pesantezza dei termini e l’angosciante procedere delle situazioni riesce ad ergersi nel panorama dei contemporanei con quel tocco di vivace originalità “nera” che molti dovrebbero riscoprire.
Giuseppe Paternò Raddusa