Con me e con gli alpini
di Piero Jahier
Mursia 2005
Dal 1909 Jahier respirava aria vociana e dal 1911 al ’13 è tenente istruttore di un reparto degli alpini durante la prima guerra mondiale.
Sto bene, sono felice nel fango, nevi e fatiche. Tra gli uomini della mia razza. Sono nel mio dovere; per questo sto bene. Se persevero a conquistare l’anima, la bellezza mi sarà regalata.
L’interventismo, l’impegno in guerra per Jahier non è opportunità di carriera e lucro come per molti giovani del suo tempo, ma un esercizio e una esperienza umana che può diventare letteraria. Stile frammentato, diaristico, sintetico, lirico. Alternarsi di prosa e poesia.
Giorni che la minima buona azione vale la più bella poesia.
Azione oltre alla letteratura, tanto da negare il valore supremo della poesia e superarlo con una azione, un atto umano. La valorizzazione della guerra non ha nulla dell’estetica futurista o dell’operazione maltusiana di Papini o dell’atto imperialistico: la guerra è un esercizio, una prova di vita.
Privazione, salute, uguaglianza, ubbidienza, disciplina, amore, buona coscienza.
Il soldato allora ha un ruolo nell’impresa bellica e questa esperienza ha un ruolo nella formazione dell’uomo, del giusto, del popolo. Ed il sacrificio soprattutto, la necessità del sacrificio che Jahier ritrova nei suoi alpini, in quel popolo lontano dalle lussurie cittadine, che fa quotidianamente i conti con le ostilità della montagna. Gli alpini che sono soldati avvezzi alle difficoltà perché sono abituati a fare vita attenta, sincera e parsimoniosa.
La guerra è un momento di crescita esistenziale per l’uomo, e la condivisione di alcune sorti e difficoltà lo fa appartenere ad un gruppo, ad un popolo. La montagna degli alpini e delle scene di guerra è tutto ciò: forza, fatica, coraggio e sofferenza in opposizione alle civiltà industriali. E qui Jahier tocca il doloroso tema dell’emigrazione italiana. Gli alpini, non solo il suo popolo ma l’idea che lui ha di essere tale, sono un popolo emigrante (si va in Germania, d’inverno, quando sui monti c’è poco da fare) che in terra d’emigrazione non mette mai le radici pronto com’è a tornare a casa e vivere la vera vita. I guadagni di queste fatiche non vengono sperperati all’estero ma si usano per comprare pezzi di terra vicino casa. Così Jahier porta la minuta e preziosa esperienza di un popolo ristretto che fa parte di quella grande proletaria che si muove, ma non speranzosa di conquistare nuove terre.
Fabio Mercanti