di Silvia Avallone
Rizzoli, Milano 2010
pp. 358
€ 18.00
Se ne è parlato tanto, e se ne parla ancora. Un po' perché Acciaio è un'opera prima arrivata in finale al premio Strega, dopo un appassionante testa-a-testa con il vincente Canale Mussolini di Pennacchi. Un po' perché la pubblicità lavora spietatamente, e di una storia articolata e sfaccettata, a tratti orchestrazione complessa, si è rimarcato soprattutto (ed erroneamente) l'amore saffico tra le protagoniste. Un po' perché bisogna sempre scagliarsi contro chi ha il coraggio di portare su carta una storia di formazione (compiuta o incompiuta che sia) in un mondo violento. Un po' perché questo mondo violento, appunto, non è stato capito, e molti lettori sono fuggiti dalle emozioni forti del romanzo sviluppando critiche sterili (si veda il marasma di commenti sul nostro sito amico Lib(e)ro Libro). Critiche al veleno, certo, ma nessuno ha abbandonato la lettura: scorrevolezza, rapidità d'azione e agilità permettono una lettura classificata come "bere un bicchier d'acqua". Ma i contenuti? E lo stile?
Due parole sulla trama. Protagoniste sono due ragazze dell'87, Anna e Francesca, amiche fin dalla nascita, abituate a vivere nello stesso palazzo cadente della Piombino delle acciaierie. E, soprattutto, affezionate alla realtà desolante e cruda di ogni giorno: incidenti sul lavoro e morti bianche, ragazzine prematuramente incinte, famiglie disgregate e violenze, pochi soldi e la fretta di spenderli, come reazione coatta per sentirsi vivi. Le stesse famiglie delle protagoniste non si sottraggono alle leggi di quartiere, e non sorprende che Anna e Francesca pensino per un certo periodo, nella confusione adolescenziale, di amarsi. Infatti, è questo l'unico sentimento puro e certo, che sembra inattaccabile. Non sarà così, perché la crescita porta distanza e cambiamenti forse incolmabili.
Ma non è tutta qui la storia, e sarebbe ingiusto (e morboso) fermarsi a questa mera fattualità. Tema forte, quasi incontrastato direi, il desiderio di fuga: la vicina ma irraggiungibile Elba unifica i sentimenti di tutti i protagonisti; simbolo di cambiamento, è un continuo supplizio di Tantalo e un miraggio di ricchezza, felicità o, quantomeno, di svolta.
E poi c'è il tema sociale delle acciaierie: la Lucchini è sfondo e personaggio, simbolo di quella realtà quotidiana che i protagonisti non possono dimenticare. Anche mentre litigano o fanno l'amore, l'industria col suo stantuffare e fumare, con la potenza di fondere e plasmare l'acciaio, è spesso metafora di forza eroticheggiante, nonché minaccia di morte. L'indugio dell'autrice su particolari tecnici e sul lessico specifico copre l'industria di una cappa pesante, in una poderosa preveggenza di drammi e lacrime.
Personaggi alla deriva. Come anticipato, la storia non è solo quella di Anna e Francesca. I familiari, gli amici, gli amori e i conoscenti non sfilano come manichini funzionali alla storia centrale, ma vivono la loro esistenza tormentata. Più volte scene diversissime e antitetiche si accavallano, alternando suspense e distensione. Addirittura, in alcuni punti si ha la sensazione che l'attenzione si concentri diffusamente su personaggi prima marginali: è capitato, infatti, di chiedermi se si potesse parlare di un 'romanzo corale'. Ma non è così: gli ultimi capitoli vedono l'uscita di scena - talvolta brusca, forse troppo, come nel caso di Mattia - di molti personaggi, e la rifocalizzazione sulle due ragazze, per un finale che non scontato (ma sperato) che resta sostanzialmente aperto. Non si legge neanche una totale pacificazione né una ricomposizione totale: se Anna sogna sempre con un occhio aperto, Francesca si trova a chiuderli entrambi, volontariamente, fingendo di illudersi ancora e ancora.
Per parlare di stile. Silvia Avallone non ha peli sulla lingua, direbbe qualcuno. E non so come dare torto: ha un lessico tagliente, aspro e duro quanto la realtà che descrive. Per questo fa del turpiloquio un'arma onnipresente nei discorsi diretti, che tanto sveltiscono la narrazione.
Soprattutto, è costante il lessico concreto: in una realtà in cui l'astrazione è quasi assente, non esiste il verbo "mettere", ma solo "ficcare", usato anche in senso figurato; i bambini non parlano, ma la "sparano grossa"; e ancora ci si "avventa", non si pensa ma si "spremono le meningi",... Di conseguenza, ogni minimo accenno di delicatezza è in netto contrasto con il contesto predominante.
A questa scelta morfolessicale si accompagna una sintassi secca, per frasi brevi quasi sempre ben studiate, in particolare all'inizio e alla fine dei tanti capitoli, spesso lasciando l'azione sospesa o ribaltando la situazione. Non mancano le frasi iniziate con la "E", sempre sapientemente (ne ho trovate alcune decisamente di grande effetto).
Quello che manca (o che abbonda). Ho letto tante critiche, ma nessuna che avesse un'argomentazione forte. Personalmente, credo che le pecche di questo libro siano imputabili più a un frettoloso lavoro di editing che a Silvia Avallone. L'autrice, alla sua prima prova narrativa, aveva tutti i diritti di proporre un'opera non perfettamente equilibrata, di indugiare a lungo sugli innamoramenti con uno sguardo ancora sognante che profuma di letture per adolescenti, o di cascare su qualche accordo grammaticale e sintattico.
Perché, a dirla tutta, il romanzo avrebbe proprio avuto bisogno di un ulteriore labor limae, in vista di una sistemazione di errori (o refusi?) piuttosto grossolani (accordi errati tra singolare-plurale, punteggiatura spesso molto discutibile, dislocazioni gestite non sempre in modo efficace,...). E ancora, occorre una revisione del repertorio metaforico: sono spesso ripescate forme molto simili, talvolta identiche, non per richiamare alla memoria del lettore personaggi o ambientazioni, ma per un'evidente dimenticanza delle precedenti occorrenze. Legittimo errore - ripeto - per un'esordiente (specialmente per un'esordiente tanto talentuosa, secondo me), ma molto meno per una casa editrice seria come Rizzoli.
Quel che resta. Detto questo, il libro non se ne va facilmente. La narrazione vivida propone immagini forti, visivamente molto efficaci, a cominciare dalla bellissima descrizione iniziale, in cui il corpo di Francesca viene osservato attraverso le lenti del binocolo del padre. La ragazza viene così conosciuta per dettagli, in una frantumazione simbolica che rimanda alla fragilità dei suoi tredici anni.
E poi... E poi restano alcune scene, il delicato racconto della prima volta di Anna, o la terribile morte di uno dei personaggi alla Lucchini, l'omertà di una madre troppo debole, l'amore incondizionato e irrazionale di un'altra donna per un uomo inaffidabile. E ancora, l'ebbrezza e l'euforia delle piccole vittorie dell'adolescenza, subito riequilibrate dalle frustrazioni e dalle delusioni in famiglia o con gli amici. Fermarsi alla lettura superficiale del testo come "romanzo-passatempo" mi sembrerebbe un vero insulto. Soprattutto perché credo che Silvia Avallone farà parlare di sé ancora, non senza polemiche, ma con altre grandi storie da narrare.
GMG
Vuoi leggere una bella intervista all'autrice? Leggi su Wuz.
Ma non è tutta qui la storia, e sarebbe ingiusto (e morboso) fermarsi a questa mera fattualità. Tema forte, quasi incontrastato direi, il desiderio di fuga: la vicina ma irraggiungibile Elba unifica i sentimenti di tutti i protagonisti; simbolo di cambiamento, è un continuo supplizio di Tantalo e un miraggio di ricchezza, felicità o, quantomeno, di svolta.
E poi c'è il tema sociale delle acciaierie: la Lucchini è sfondo e personaggio, simbolo di quella realtà quotidiana che i protagonisti non possono dimenticare. Anche mentre litigano o fanno l'amore, l'industria col suo stantuffare e fumare, con la potenza di fondere e plasmare l'acciaio, è spesso metafora di forza eroticheggiante, nonché minaccia di morte. L'indugio dell'autrice su particolari tecnici e sul lessico specifico copre l'industria di una cappa pesante, in una poderosa preveggenza di drammi e lacrime.
Personaggi alla deriva. Come anticipato, la storia non è solo quella di Anna e Francesca. I familiari, gli amici, gli amori e i conoscenti non sfilano come manichini funzionali alla storia centrale, ma vivono la loro esistenza tormentata. Più volte scene diversissime e antitetiche si accavallano, alternando suspense e distensione. Addirittura, in alcuni punti si ha la sensazione che l'attenzione si concentri diffusamente su personaggi prima marginali: è capitato, infatti, di chiedermi se si potesse parlare di un 'romanzo corale'. Ma non è così: gli ultimi capitoli vedono l'uscita di scena - talvolta brusca, forse troppo, come nel caso di Mattia - di molti personaggi, e la rifocalizzazione sulle due ragazze, per un finale che non scontato (ma sperato) che resta sostanzialmente aperto. Non si legge neanche una totale pacificazione né una ricomposizione totale: se Anna sogna sempre con un occhio aperto, Francesca si trova a chiuderli entrambi, volontariamente, fingendo di illudersi ancora e ancora.
Per parlare di stile. Silvia Avallone non ha peli sulla lingua, direbbe qualcuno. E non so come dare torto: ha un lessico tagliente, aspro e duro quanto la realtà che descrive. Per questo fa del turpiloquio un'arma onnipresente nei discorsi diretti, che tanto sveltiscono la narrazione.
Soprattutto, è costante il lessico concreto: in una realtà in cui l'astrazione è quasi assente, non esiste il verbo "mettere", ma solo "ficcare", usato anche in senso figurato; i bambini non parlano, ma la "sparano grossa"; e ancora ci si "avventa", non si pensa ma si "spremono le meningi",... Di conseguenza, ogni minimo accenno di delicatezza è in netto contrasto con il contesto predominante.
A questa scelta morfolessicale si accompagna una sintassi secca, per frasi brevi quasi sempre ben studiate, in particolare all'inizio e alla fine dei tanti capitoli, spesso lasciando l'azione sospesa o ribaltando la situazione. Non mancano le frasi iniziate con la "E", sempre sapientemente (ne ho trovate alcune decisamente di grande effetto).
Quello che manca (o che abbonda). Ho letto tante critiche, ma nessuna che avesse un'argomentazione forte. Personalmente, credo che le pecche di questo libro siano imputabili più a un frettoloso lavoro di editing che a Silvia Avallone. L'autrice, alla sua prima prova narrativa, aveva tutti i diritti di proporre un'opera non perfettamente equilibrata, di indugiare a lungo sugli innamoramenti con uno sguardo ancora sognante che profuma di letture per adolescenti, o di cascare su qualche accordo grammaticale e sintattico.
Perché, a dirla tutta, il romanzo avrebbe proprio avuto bisogno di un ulteriore labor limae, in vista di una sistemazione di errori (o refusi?) piuttosto grossolani (accordi errati tra singolare-plurale, punteggiatura spesso molto discutibile, dislocazioni gestite non sempre in modo efficace,...). E ancora, occorre una revisione del repertorio metaforico: sono spesso ripescate forme molto simili, talvolta identiche, non per richiamare alla memoria del lettore personaggi o ambientazioni, ma per un'evidente dimenticanza delle precedenti occorrenze. Legittimo errore - ripeto - per un'esordiente (specialmente per un'esordiente tanto talentuosa, secondo me), ma molto meno per una casa editrice seria come Rizzoli.
Quel che resta. Detto questo, il libro non se ne va facilmente. La narrazione vivida propone immagini forti, visivamente molto efficaci, a cominciare dalla bellissima descrizione iniziale, in cui il corpo di Francesca viene osservato attraverso le lenti del binocolo del padre. La ragazza viene così conosciuta per dettagli, in una frantumazione simbolica che rimanda alla fragilità dei suoi tredici anni.
E poi... E poi restano alcune scene, il delicato racconto della prima volta di Anna, o la terribile morte di uno dei personaggi alla Lucchini, l'omertà di una madre troppo debole, l'amore incondizionato e irrazionale di un'altra donna per un uomo inaffidabile. E ancora, l'ebbrezza e l'euforia delle piccole vittorie dell'adolescenza, subito riequilibrate dalle frustrazioni e dalle delusioni in famiglia o con gli amici. Fermarsi alla lettura superficiale del testo come "romanzo-passatempo" mi sembrerebbe un vero insulto. Soprattutto perché credo che Silvia Avallone farà parlare di sé ancora, non senza polemiche, ma con altre grandi storie da narrare.
GMG
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