di Dacia Maraini
Ianieri edizioni, 2007
pp. 64
“Passi affrettati” è il titolo di un testo teatrale costituito da dialoghi e con forma auto-diegetica. Sottolineare ab initio quest’elemento significa a mio avviso, più che apporre una nota pedante a sigillo di questa breve recensione, mettere in risalto il fatto che a parlare in prima persona, raccontandoci le loro “storie parallele”, siano donne, a volte addirittura ragazze o bambine costrette al silenzio per ragioni di cultura, discriminazione, persecuzione. E queste poche righe vorrebbero essere strumento di divulgazione e promozione del testo in questione per le chiare implicazioni etico sociali di vicende tristemente tratte dal quotidiano di un universo femminile lacerato e dolente. Infatti “Passi affrettati”, oltre che un libretto smilzo da leggersi in poche ore, risulta essere un’opera “di spessore” se si considera la portata delle riflessioni che conseguono dal messaggio di denuncia supportato da Amnesty International: “multa paucis” è l’obiettivo di Dacia Maraini che ha deciso di devolvere i propri diritti letterari a favore delle donne vittime di casi di violenza domestica ed entro la comunità d’appartenenza.
Otto donne scelte nelle zone più diverse del mondo e dai casi più disparati, elette testimoni di una condizione oltraggiata. Il Messico e la California, Il Belgio e l’Albania, la Giordania, la Nigeria, l’Italia, il Tibet e la Cina… non c’è angolo di mondo che possa dirsi completamente esente da un fenomeno che, anche a detta di Lilli Gruber e della sua introduzione basata sull’intervista ad alcuni detenuti del carcere di San Vittore, dipende a livello psicologico da un senso di debolezza per cui “l’unico modo per dimostrare la propria forza personale è esibire quella sul piano fisico. […] Non si tratta più nemmeno di desiderio. C’è solo l’istinto di sopraffazione”.
Otto donne scelte nelle zone più diverse del mondo e dai casi più disparati, elette testimoni di una condizione oltraggiata. Il Messico e la California, Il Belgio e l’Albania, la Giordania, la Nigeria, l’Italia, il Tibet e la Cina… non c’è angolo di mondo che possa dirsi completamente esente da un fenomeno che, anche a detta di Lilli Gruber e della sua introduzione basata sull’intervista ad alcuni detenuti del carcere di San Vittore, dipende a livello psicologico da un senso di debolezza per cui “l’unico modo per dimostrare la propria forza personale è esibire quella sul piano fisico. […] Non si tratta più nemmeno di desiderio. C’è solo l’istinto di sopraffazione”.
Riporto uno stralcio di una poesia africana rielaborata dall’autrice che, precedendo la postfazione a cura di Maria Rosaria La Morgia, rafforza le molteplici suggestioni derivanti dal testo drammaturgico:
Addormentata… io sono l’addormentata
E il mio corpo viene portato via
Io sono la svelata
Io sono l’esclusa
Io sono colei sulla quale è stato posto il divieto
[…]
Io fra i marmi della disgrazia sorrido
Io fra le rocce del silenzio, velato di bianco, sorrido.
Che questi passi, delicati e violenti al tempo stesso, ci impediscano di dimenticare, ci riscuotano dall’indifferenza, ci permettano di udire anche la “voce di chi grida nel deserto”…
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