di Jane Austen
Newton Compton, 2010
“Sense and sensibility” (1811) è il titolo originario di un altro coinvolgente e straordinario spaccato sociale della Austen. Un romanzo che, partendo dall’analisi delle coscienze di due “piccole donne”, Elinor e Marianne, riesce a descrivere un’aristocrazia frivola e vuota, romanticamente immersa nell’idea del pittoresco ma incapace di sentire quanto e come vorrebbe far credere o di credere in ciò che finge di sentire. Un tentativo di Bildungsroman per due sorelle distanti nell’indole quanto nell’atteggiarsi in pubblico, la storia del tramonto dell’adolescenza e della lenta maturazione verso l’età adulta, resa con tinte malinconiche ed esacerbate nel caso della sorella più passionale, con nuances più sfumate, delicate, “prudenti” per Elinor, la riflessiva, la detentrice di ogni buon senso.
Ma se le due protagoniste vengono costruite come personaggi “a tutto tondo” è facile intuire che sono anche speculari e per questo complementari e che i loro ruoli sono facilmente invertibili, le loro storie interscambiabili… perché credo che ogni ragazza abbia sentito il bisogno, almeno una volta nella vita e almeno in parte, di essere avventata, istintiva e un po’ incosciente come Marianne cercando di tacitare, in fondo alla coscienza, i rimproveri di quella parte più razionale e pacata che qui si proietta in Elinor. Quasi ogni donna prima di diventare tale è stata un po’ l’una e un po’ l’altra sorella… fragile eppure sprezzante dell’opinione altrui con la fiducia cieca che il vero amore nella vita sia unico e solo e che coloro che lo vivono siano come due punti di una corrispondenza biunivoca, incuranti dei miliardi di altri punti piccoli e scuri, o salda e resoluta, riservata nel dolore e abile nel dissimularlo ma per questo tanto più profonda e stabile… Elinor impara la sopportazione ed ha il tempo di accorgersi del dolore altrui… Elinor impara la sopportazione ed ha il tempo di accorgersi del dolore altrui compreso quello del buon colonnello Brandon. La compassione la rende umana rispetto a certe dame dalla postura ingessata e simili a statue di cera (esemplare a tale riguardo è il portamento di Lady Middleton). Ella apprende il pathei mathos come una Didone virgiliana.
Oserei dire che è persino presente una certa ironia tragica la quale segna il turn of events di un plot invero molto semplice e in gran parte svelato, almeno nell’edizione Newton Compton, in un’ottima introduzione di L. Lipperini, attualizzante quanto però (ahimè!) rivelatrice dell’intreccio. Permane comunque il piacere dell’analisi caustica, dell’indagine inesausta dell’autrice in un mondo composto e apparentemente impeccabile tra lezioni di musica, di disegno e cucito, i balli galanti, i tè delle cinque, le serate di whist e le signorine eleganti tutte trine, nastri e pizzi… un secolo dopo Garcìa Lorca, confrontando i vecchi costumi al moderno mito industriale, ne avrebbe rimpianto perfino i cani, assassinati nelle allucinanti battute di caccia! E se anche in mezzo a questa folla rutilante è possibile incontrarsi e scontrarsi, non mancano tuttavia le occasioni per lasciarsi, perdersi, ritrovarsi ancora nelle campagne di Norland e nel Devonshire come per le affollate strade di Londra, lì dove lo sguardo febbrile delle protagoniste vaga senza posa, perennemente all’erta nella speranza d’intravedere una giacca, un sorriso noto, di riconoscere un passo amico, un’inflessione della voce che tradisca una certa emozione… perché il mondo della Austen è fatto soprattutto di dettagli, di piccole variazioni sul tema che fanno ripercorrere al lettore il grigio di certi giorni uguali e che poi, in un piccolo particolare, esaltano gli arcobaleni iridescenti racchiusi in un sentimento che a volte travolge, a volte è travolto dalla ragione.
Le sorelle Dashwood (E. Thompson e K. Winslet)
in "Ragione e sentimento" (A. Lee, 1995)
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