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L’amarezza della resa

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Patmos
di Bruno Pedretti

Christian Marinotti Edizioni (2008)
pp. 263, € 18,50


Le passioni giovanili, i pensieri e gli ideali comuni in cui si è creduto, creano legami indissolubili. Le persone che si incontrano nel periodo del fervore di gioventù, entrano nei ricordi e, nel bene o nel male, vi si aggrappano, accompagnando gli anni a venire e modificandone il percorso.

Così è stato nella vita di Beniamino (Ben) e Paolo, due giovani intellettuali della Milano dei movimenti universitari rivoluzionari, pronti a dissentire e a combattere per un ideale di arte e di estetica libera dalle costrizioni sociali e politiche. Giunti, poi, dopo il lungo affanno, alla resa. Diversa, forse opposta, ma pur sempre resa: Ben accetta i compromessi della vita adeguandosi alle richieste della società e Paolo, incapace di piegarsi a questo, fugge da tutto scomparendo da Milano.
Possibile che io, il caro amico di un tempo e tanti altri fossimo stati tanto idioti da sentirci i nuovi profeti chiamati a sovvertire il mondo senza nemmeno la furbizia di rimandare il giudizio finale all’aldilà come invece facevano gli antichi predicatori? Possibile che avessimo smarrito ogni senso della realtà al punto di immaginare un universo futuro a nostra immagine e somiglianza, pronto e confezionato dietro l’angolo dell’utopia? Che avessimo confuso la nostra escrescenza giovanile per la suppurazione finale dei mali del mondo? Ma se noi ci eravamo tanto ubriacati di presuntuosa redenzione, le redenzioni delle epoche passate erano da considerare giuste? Giovanni di Patmos, tutti gli antichi profeti e vari messia che si sono alternati sulla scena della liberazione non erano anche loro imputabili di aver pensato, parlato e guidato il popolo in stato di ebrezza?
Il più delle volte, i compagni dei tempi passati rimangono solo nei ricordi. Non in questa storia, dove i due amici si incontrano di nuovo, per caso, a Patmos, isola greca dove Ben decide di ritirarsi per cercare l’ispirazione. Questo incontro ha un effetto dirompente in Ben che si trova a rivivere violentemente tutti i ricordi del passato, incapace di arrendersi all’inesorabile fluire del tempo che ha portato profondi cambiamenti nella vita di tutti.

Nelle poche parole scambiate per le vie di Patmos, si scopre come gli stessi ideali fossero il collante di un’amicizia, non proprio perfetta, tra due giovani tanto diversi. La gratitudine, l’ammirazione, quasi adorazione, che Ben nutre nei confronti di Paolo, si scontra e demolisce contro i duri giudizi di quest’ultimo, lapidari, freddi, a volte di disprezzo. Nel tentativo, quasi ossessivo, di indagare sul passato di Paolo, sulla sua vita, sulle scelte che, ora, lo fanno apparire così diverso, distante, sfuggente, Ben inizia un viaggio a ritroso nel tempo fino a ricordare, quasi sezionare, l’evento dello sfregio del quadro di Santa Lucia, avvenuto nel suo paese natale. Crede, o forse spera, che la risoluzione di quel piccolo giallo paesano, che all’epoca aveva scosso Paolo, possa concedergli risposte alle domande che non lo lasciano dormire e gettare luce su ciò che lo ha sconvolto nel profondo: la sparizione improvvisa dell’amico da Milano.

Il libro affascina. Non serve una trama – comunque presente – e non serve un colpo di scena, che ci si aspetterebbe e che non arriva, senza però deludere. Il carburante che alimenta la lettura, pagina dopo pagina, è l’abilità descrittiva dell’autore. Bruno Pedretti è uno storico dell’arte e lo si percepisce ad ogni riga.
La caratterizzazione dei personaggi è molto efficace. Si riesce ad comprenderne a pieno l’intimità, se ne immaginano le sembianze e, a volte, sembra di sapere qualcosa che va oltre quello che viene scritto nel libro. Lo stesso per i paesaggi, gli edifici, i monumenti, raccontati con maestria e dovizia di particolari.
Le alte mura del complesso, illuminate dal basso da potenti riflettori, si scolpivano in poche, austere forme geometriche che ne esaltavano il profilo di fortezza. La possente architettura monastica si imponeva integra, non mostrava il minimo segno di rovina. Aveva resistito a tutti gli assalti, non giaceva a terra in frantumi come la maggior parte dei templi antichi, non era mutilata come certe surreali cattedrali gotiche date alle fiamme durante le guerre di religione, non sopravviveva diroccata come la gran parte dei castelli medievali che ci aspettano su speroni di montagna ricordandoci che sui bastioni vince sempre la sterpaglia. C’era qualcosa di miracoloso nel Monastero di San Giovanni. La sua integrità risuonava di verità imperturbata. Mi sembrò una Gerusalemme Celeste che, sospesa nel buio del cosmo, stesse finalmente decidendo di posarsi sulla Terra.
La descrizione del quadro sfregiato, il racconto, quasi accademico ma così appassionato, della vera storia della Lucia raffigurata, accompagna il lettore in un’esperienza culturale profonda, coinvolgente, quasi fisica. Sembra di essere lì, davanti alla pala, guidati dalla voce dell’autore che spiega, come un maestro, ogni singola pennellata.
Il racconto termina con l’addio a Patmos. Le ultime pagine sono un susseguirsi malinconico di parole. La stanchezza del protagonista, la nostalgia e la disillusione, la resa – un’altra – lasciano in bocca un gusto amaro, sottofondo al sospiro che accompagna la chiusura del libro.

Silvia Surano