I cani là fuori
di Gianni Tetti
Neo. Edizioni, 2009
193 pp.
All’inizio questo libro mi ha irritato. L’ho trovato pretenzioso, scritto con un linguaggio che vorrebbe avere dell’avanguardista ma che mi è invece sembrato un semplice sfoggio di abilità scrittoria, l'ennesimo tentativo di uno scrittore esordiente di lanciare il proprio sasso nel già abbastanza bersagliato lago delle novità editoriali, per far irradiare da esso quante più onde concentriche possibile. Mi è sembrato insomma, sulle prime, un libro con "molto fumo e poco arrosto".
Andando avanti con la lettura, invece, mi son dovuto ricredere. La raccolta di undici racconti di Gianni Tetti è un prodotto che, come altre pubblicazioni della casa editrice Neo, ha come filo conduttore l’essere fuori dal comune, lontano da canoni scritti e non della letteratura contemporanea, irriverente nei confronti del "bon ton culturale". Prende le distanze dal "politically correct", e mette al centro delle sue vicissitudini dei personaggi che si potrebbero definire “marginali”, ma la cui definizione esatta, a mio parere, è “emarginati”.
Reietti, straccioni, pazzi, deviati, criminali: sono questi gli archetipi che Tetti (sassarese, mio conterraneo, ma della parte opposta della Sardegna) pesca per i suoi racconti, elaborandoli e macinandoli con uno stile sincopato, concentrato e quasi isterico, a mio avviso, almeno apparentemente, piuttosto influenzato da Chuck Palahniuk, perlomeno nel ritmo del narrare.
Alcuni momenti sono davvero inquietanti: racconta di una Sassari (ma senza mai citarla esplicitamente, richiamandola unicamente per mezzo di dettagli) ritraendone un quadro della sua facciata più nera, periferica, squallida, abitata da zombi senza morale, deviati, falliti e balordi che raccontano le loro vicende riversando addosso al lettore tutta la loro meschinità. E così si passa dalla storia di un maniaco che osserva la sua amata dalla finestra della sua abitazione, a quella di un protettore di prostitute cinesi, a quella ancora di un paranoico che parla col proprio cane, e altre ancora.
Tutte le storie sono imperniate attorno a fatti criminali, spesso di sangue, che mettono maggiormente in luce la sordida natura dei protagonisti. I racconti, brevi e concisi, ricordano a volte quelli di Milano calibro 9 di Scerbanenco, con in più una vena “pulp” ancora più volutamente spinta, anche dal linguaggio frenetico e aggressivo che Tetti adopera.
Ribadisco, ma questa volta in senso positivo, il senso di irritazione che mi ha dato il libro: a volte infastidisce, alcune volte ho avuto la tentazione di lasciarlo per qualche tempo, ed è, a mio parere, un segno dello spessore delle trame che Tetti mette in atto sulla sua raccolta, tramite la quale “dà voce ad una fame impossibile da saziare. È la fame di un’umanità che non riesce a far tacere la propria parte selvaggia, animale”.
Derivativo, probabilmente pretenzioso, consiglio comunque di dargli una lettura. È un libro che probabilmente non vi lascerà indifferenti.