Laura Sintija Černiauskaitė (trad. dal lituano di Guido Michelini e Birutė Žindžiūtė-Michelini)
Atmosphere Libri, gennaio 2011
pp. 159
Con Il respiro sul marmo Laura Sintija Černiauskaitė (Vilnius, 1976) ha vinto il premio dell’Unione Europea per la Letteratura 2009. Pubblicato nel 2009 in Lituania, ora il romanzo è riproposto in Italia da Atmosphere Libri: un’operazione degna di nota, perché vòlta alle letterature cosiddette “marginali” e alla qualità.
L’adozione di Ilja, un bambino di sei anni proveniente dall’orfanotrofio, è l’inizio dell’esplodere silenzioso dei rapporti, dell’incrinarsi fino alla rottura dei già fragili equilibri della giovane famiglia composta da Izabelė, dal suo compagno Liudas e dal figlio naturale Gailius, affetto da epilessia.
È questo il perno a partire dal quale l’autrice rappresenta – con una imagery simbolica ma dalla forte connotazione fisica – i mutamenti interiori ed esteriori dei protagonisti: mutamenti dei quali essi stessi sono attori e vittime, tanta è la passività irrazionale con cui vengono accettati (Izabelė), o l’acribia razionale con cui vengono ignorati (Liudas).
I pochi, brevi, spesso distratti dialoghi nella coppia e più in generale fra i protagonisti – fra i quali è anche Beatričė, direttrice dell’orfanotrofio e amica-rivale di Izabelė – riflettono un’incomunicabilità verbale che sposta la pregnanza psicologica dei personaggi sul piano del non-detto, dell’ossessione e dell’azione ingiustificata: dall’affaccendarsi di Liudas attorno alla sua Opel per nascondere a Izabelė (e a se stesso) la sua nuova relazione con Beatričė, alla precisione ossessiva con cui questa versa e mescola il caffè davanti a Izabelė ormai certa del tradimento, fino al complesso rapporto che lega Izabelė a Ilja, portandola a coprirlo perfino quando questi, in preda a un attacco aggressivo incomprensibile, uccide con un coltellino il fratellastro Gailius, di due anni più grande.
È a quest’ultimo – figura discreta, inerme, commovente – che l’autrice affida le osservazioni più acute e amare, le domande più scomode che il lettore stesso vorrebbe porre, e che restano comunque senza risposta. La sua ipersensibilità lo porta a prevedere e dichiarare, inascoltato, la sua stessa fine; a cercare, con le migliori intenzioni, il contatto di Iljus, impenetrabile Caino contemporaneo; a tenere un quaderno dove scrivere i pensieri più profondi, come nel brevissimo capitolo Tanta seta nei capelli e dappertutto, probabilmente il punto più alto dell’intero libro.
Qui, con un linguaggio semplice ma intenso, il bambino racconta la sua malattia:
La mamma si spaventò molto quando iniziai a piangere, sembrava l’inizio di un attacco. Di quella bestia sempre in agguato in me, che senza preavviso mette fuori il muso e spaventa tutti. Io vivo con essa, ma non l’incontro mai. Quando mette fuori il muso, io mi ritiro. So di lei dalla mamma e dal papà. A loro quella bestia ha rosicchiato la vita. Non vedo nessuna differenza tra il verme e me. Soltanto una cosa: un verme così piccolo non può ospitare in sé una grossa bestia. Vuol dire, non porta dolore agli altri.
Di Ilja invece non sappiamo quasi nulla. Malgrado i continui tentativi di Izabelė, la sua estraneità alla famiglia (e al lettore) rimane assoluta, se si eccettua un breve episodio che lo vede piangere stretto a Izabelė: più che un personaggio è una presenza minacciosa, passibile di molteplici interpretazioni.
Il thriller così non consiste nello scoprire se sia Ilja ad avere ucciso (tanto più che il crimine è rappresentato nelle fasi iniziali della narrazione, con uno stile convulso, da presa diretta), quanto a intuire perché Izabelė sia così legata a lui: alcuni parchi indizi fanno pensare a una ostilità taciuta nei confronti di Beatričė, contraria all’adozione, a un desiderio di auto-punirsi con un bambino difficile per non sapersi perdonare il declino del suo rapporto con Liudas, e infine a un’incapacità di accettare Gailius e la sua malattia.
L’unico personaggio che attraversa più metamorfosi è proprio lei, Izabelė: passa da una fragilità di ragazza testarda e irrazionale a un’atarassia anestetizzata durante la rielaborazione del lutto; dalla successiva regressione infantile nel recuperare un rapporto con la vita, all’ingresso nella maturità con un crescendo di atti di riscatto personale: la dedizione all’insegnamento e alla pittura, la relazione col giovane fotografo Karolis, la decisione di non tornare insieme a Liudas – che nel frattempo, dopo la rottura con lei e la morte del figlio, ha cercato di riavvicinarsi – e quella, finale, di intraprendere un viaggio purificatore in montagna. Come frammenti luminosi, questi atti puntellano il precipitare degli eventi, e contrastano il sentimento fatalista (per nulla estraneo alla sensibilità slava) che aleggia sulla narrazione.
Se la fabula è tutto sommato semplice, con pochi avvenimenti di rilievo e pochi personaggi, l’intreccio scombina le carte giocando con flash-back che rievocano un passato precedente la vicenda narrata, immettendo episodi sul confine labile tra realtà e sogno, dando all’opera una struttura circolare grazie all’affinità delle scene iniziale e finale. A ragione di questi aspetti compositivi, nell’intero testo è percepibile l’influenza di un moderato modernismo.
L’attenzione dell’autrice si concentra così sui gesti minimi, sempre compresi dagli ambienti (la casa e la campagna lituana sono pervasive e tangibili come ulteriori presenze), e il determinismo a cui sottostanno i suoi personaggi ha un correlativo formale nell’uso frequente dei pronomi personali anziché dei nomi propri, che in alcuni passaggi rende difficile una loro immediata identificazione.
La liquefazione delle personalità – con la già vista eccezione della rinascita finale di Izabelė – è perseguita mediante ritorni lessicali legati ai campi semantici della liquidità e dell’evaporazione: per esempio le macchie, che siano di cacao, latte, sangue o altro, tornano ossessivamente in tutto il testo; finalizzato a questo scopo è anche l’uso dello straniamento metonimico (“il vuoto con le fattezze di Ilja la seguì attraverso il cortile”, p. 20; “le gambe, leggere e silenziose, la portano nell’anticamera”; “il palmo resta appoggiato con le dita semiaperte, come se chiedesse le elemosina contro la sua volontà”, p. 67); al contrario, le sensazioni sono spesso connotate fisicamente mediante personificazioni (ad es. “Le parole si scontravano nella coscienza come cani rabbiosi”, p. 67).
Di ogni personaggio l’autrice mette in evidenza alcuni tratti che finiscono per diventare vere e proprie sostituzioni metonimiche, o emblemi riassuntivi, dei personaggi stessi: gli occhi come spilli di Ilja, i capelli ricci e sensuali di Beatričė, il fango portato in casa da Liudas, i capelli cenere e il collo sottile di Izabelė, il bianco e il rosso della morte di Gailius (“molte volte aveva visto il suo volto pesante e liscio come un marmo antico […] Ma là, sotto il volto, più in basso, illuminata dalla luce serale che cadeva dalla porta, fiammeggiava nell’addome del suo bambino una bocca infernale insanguinata”), e che campeggiano, fra l'altro, sulla copertina.
Il periodare accompagna la lettura con sinuosità e senza pesantezze, grazie anche a un’interpunzione che è ritmica e poetica prima ancora che logica; peccato solo per talune legnosità espressive in sede traduttiva, a rendere alcuni passaggi un po’ artificiosi all’orecchio (viene il sospetto che sia mancata una approfondita fase di revisione per uniformare il tutto, dato che la maggior parte del testo scorre con naturalezza ed eleganza), come per esempio la richiesta “alza finalmente il tuo sedere” di Beatričė a Liudas (corsivo mio), o una presenza eccessiva dei pronomi anche laddove potrebbero essere omessi.
Per concludere, al promettente esordio che è Il respiro sul marmo – romanzo intimistico dai risvolti esistenziali e perfino psicoanalitici, caricato di senso pressoché in ogni gesto compiuto e in ogni frase – si possono perdonare certi difetti scaturiti forse dall’altezza dell'ambizione: come l’eccessivo ricorso a una simbologia esibita, alle metafore e alle similitudini, o certe fugaci intromissioni della narratrice nello spiegare lo stato d’animo dei suoi personaggi, veicolato così bene a livello di rappresentazione da non meritare commenti a margine.
Davide Castiglione
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