di Walter Barberis
Einaudi, Torino 2004
pp. 137
€ 10,00
«Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d'Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861».
Questi sono i primi vagiti di un’Italia appena nata. Per chi avesse curiosità da gossip, e volesse scoprire come sia andato il parto e quale corredino la piccola Italia avesse, mentre i parenti/fondatori la contemplavano attorno alla culla, può leggere un libro pubblicato non molto tempo fa. L’autore del libro di cui sto scrivendo, si chiama Walter Barberis, docente di Storia moderna e Metodologia della ricerca storica all’università di Torino; il titolo è “Il bisogno di patria”.
Il saggio, che a me è parso più una lunga inchiesta, a tratti tragicomica, sul significato dell’Italia come Stato, scorre piacevolmente: in meno di centocinquanta pagine, Barberis analizza scientificamente la “passione” -pressoché nulla- degli italiani nei confronti di un concetto: l’unità. Il libro svela parecchi “deliri”, o piuttosto parecchie verità molto intime, intorno al nostro popolo. Ma addentriamoci ne “Il bisogno di patria”. Barberis inizia con una domanda terrificante: «Chi sono gli italiani e cos’è l’Italia?». Tale domanda risuonava anche all’inizio dell’Ottocento, e le posizioni erano diverse. Il patriota Cattaneo, e il sacerdote e primo presidente della Camera Gioberti, affermarono, rispettivamente, che l’Italia non era «facile cera da modellare», e che essa era «unita in religione, lettere, ma divisa nelle leggi, nella lingua parlata e nei costumi». Gli inglesi, che inventarono per primi l’inno nazionale, i francesi con il tricolore, gli scozzesi con il kilt e la cornamusa, trovarono presto la loro identità. L’Italia no. Perché? Per colmare questa “mancanza”, Barberis mette in rassegna alcuni eventi che, essendosi intrecciati, non hanno permesso “il senso dello Stato”: l’invasione di Carlo VIII re di Francia, l’uscita e la successiva entrata dei Medici a Firenze, l’invasione dei lanzichenecchi di Carlo V a Roma che costrinse papa Clemente VII in Castel Sant’Angelo, ecc. Eventi sfortunati questi, che non solo ritardarono l’Unità, ma lasciarono padroni gli spagnoli, i quali governarono opprimendo il popolo italiano con tasse salate tra il 1500 e il 1600. Si aggiunge a ciò un altro ingrediente: la divisione interna all’Italia data dalle città rivali (da Milano a Palermo). Anche gli scrittori di allora (Guicciardini, Bandello, Aretino) documentarono di un’Italia divisa in “parti”. Una certa, o incerta, unità si ebbe con l’entrata di Emanuele Filiberto di Savoia. Fu incerta, poiché l’Italia venne vista come proiezione del Piemonte, cioè di una singola regione, e non organizzata tout court come Stato. La formula, infatti, non si rivelò funzionale.
La somma di tutto ciò, formò una «molecolarità» (l’espressione è di Giuseppe De Rita) economica e sociale, che promosse un diffuso disinteresse nazionale: i singoli italiani, cresciuti in un clima di incertezze, temevano soltanto di «perder l’ora del pranzo e la pace della digestione»; e la loro pelle, come si usa dire. Forse ingiustamente, visto il contesto, i nostri antenati guadagnarono il titolo di “popolo imbelle”.
Barberis continua la lezione di storia affascinando, passando attraverso l’“Italia dei campanili”, quella cioè che nell’abito clericale aveva visto una garanzia e l’accentramento del potere; l’“Italia dei municipi”, criticata da Gioberti in quanto nemica dell’unità nazionale; fino all’Italia più miserabile: quella schiacciata dal fascismo. Il fascismo, che fu fondato principalmente sul culto del corpo e sul rombo dei motori, e non su un’idea (tralasciando, quindi, la parte più importante: la mente -e la storia lo dimostra-), dopo la sua caduta fu quasi dimenticato, o, peggio, reintegrato… come se la resistenza non ci fosse mai stata, come se non avesse insegnato nulla. Di certo, vi è all’Italia mancò una figura forte, simile a quella, seppur leggendaria e gonfiata, di Nicolas Chauvin in Francia, capace di dare alla gente l’idea di “amore per la patria”, tanto che il cognome dell’eroe francese divenne un termine da vocabolario: “sciovinismo”.
Mi permetto di aggiungere una nota: per essere precisi, una figura che rappresenterebbe l’Italia, e addirittura il “cambiamento” di identità (nel caso specifico, dall’identità veneziana a quella italiana) ci sarebbe eccome. Essa è all’interno delle “Confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo, libro che narra la vicenda del patriota Carlino Altoviti e del suo amore per la “Pisana”. Nievo, nel primo splendido capoverso, scrive: «Io nacqui Veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista San Luca; e morirò per la grazia di Dio Italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo. Ecco la morale della mia vita». Tuttavia, il testo è stato pressoché ignorato. Il motivo? Dell’identità, agli italiani, probabilmente non è mai importato nulla (fuor dalla nazionale di calcio, ovviamente). Quest’ultima tesi la scrivo con non poca irritazione, osservando sbalordito un secessionismo sempre più concreto.
La somma di tutto ciò, formò una «molecolarità» (l’espressione è di Giuseppe De Rita) economica e sociale, che promosse un diffuso disinteresse nazionale: i singoli italiani, cresciuti in un clima di incertezze, temevano soltanto di «perder l’ora del pranzo e la pace della digestione»; e la loro pelle, come si usa dire. Forse ingiustamente, visto il contesto, i nostri antenati guadagnarono il titolo di “popolo imbelle”.
Barberis continua la lezione di storia affascinando, passando attraverso l’“Italia dei campanili”, quella cioè che nell’abito clericale aveva visto una garanzia e l’accentramento del potere; l’“Italia dei municipi”, criticata da Gioberti in quanto nemica dell’unità nazionale; fino all’Italia più miserabile: quella schiacciata dal fascismo. Il fascismo, che fu fondato principalmente sul culto del corpo e sul rombo dei motori, e non su un’idea (tralasciando, quindi, la parte più importante: la mente -e la storia lo dimostra-), dopo la sua caduta fu quasi dimenticato, o, peggio, reintegrato… come se la resistenza non ci fosse mai stata, come se non avesse insegnato nulla. Di certo, vi è all’Italia mancò una figura forte, simile a quella, seppur leggendaria e gonfiata, di Nicolas Chauvin in Francia, capace di dare alla gente l’idea di “amore per la patria”, tanto che il cognome dell’eroe francese divenne un termine da vocabolario: “sciovinismo”.
Mi permetto di aggiungere una nota: per essere precisi, una figura che rappresenterebbe l’Italia, e addirittura il “cambiamento” di identità (nel caso specifico, dall’identità veneziana a quella italiana) ci sarebbe eccome. Essa è all’interno delle “Confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo, libro che narra la vicenda del patriota Carlino Altoviti e del suo amore per la “Pisana”. Nievo, nel primo splendido capoverso, scrive: «Io nacqui Veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista San Luca; e morirò per la grazia di Dio Italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo. Ecco la morale della mia vita». Tuttavia, il testo è stato pressoché ignorato. Il motivo? Dell’identità, agli italiani, probabilmente non è mai importato nulla (fuor dalla nazionale di calcio, ovviamente). Quest’ultima tesi la scrivo con non poca irritazione, osservando sbalordito un secessionismo sempre più concreto.
Dario Orphée