Francesco Petrarca, in questo senso, è forse molto più moderno di Dante: il suo Canzoniere vive di contrasti, è profondamente segnato dalla lotta interna dell’animo, da un procedere di sensazioni e vicissitudini che impongono la scrittura: Francesco ha bisogno di scrivere: solo in questo modo Laura potrà essergli vicino. In questo modo, e in nessun altro; gli ultimi versi della canzone XXIII sono chiari:
Canzon i’ non fu’ mai quel nuvol d’oro
Che poi discese in pretïosa pioggia,
sì che ‘l foco di Giove in parte spense;
ma fui ben fiamma ch’un bel guardo accense,
et fui l’uccel che più per l’aere poggia,
alzando lei che ne’ miei detti honoro:
né per nova figura il primo alloro
seppi lassar, ché pur la sua dolce ombra
ogni men bel piacer del cor mi sgombra.
L’alloro, il simbolo dell’incoronazione poetica, quella dell'8 aprile 1341 in Campidoglio, è l’unica trasformazione che Francesco accetta. Nella Canzone delle Metamorfosi, tutta una serie di cambiamenti lo coinvolgono: diventa albero, cigno, sasso, fontana, dura selce e cervo. La vista di lei lo destabilizza; decide di rivelarle il suo amore, ma sbaglia: Laura, infatti, lo trasforma in pietra.
Quello che prova deve essere nascosto, quello che sente va taciuto al mondo intero. Solo dopo la morte di lei, sapremo il perché. Nel Trionfo della Morte, gli confessa di averlo sempre amato ma di non aver potuto cedere perché “a salvar te e me null’altra via era”: Laura non si fa vincere dalla passione, cerca di sottrarsi al desiderio, e ci riesce. Francesco, no: lei lo rifiuta, il suo comportamento è contraddittorio, a tratti fastidioso; eppure, continua ad amarla, a struggersi per lei, per la sua lontananza, per la sua assillante assenza: piange per qualcosa che non ha, che vuole a tutti i costi, ma che può avere solo nella memoria, nei sogni, nelle apparizioni di lei e, soprattutto, dopo la sua morte. Paradossale, ma tant’è: la morte è la conditio sine qua non per essere corrisposto.
La insegue e, allo stesso tempo, prova ad andar via, a correre nella direzione opposta; non serve a nulla: Amore non permette all’amato di vincerlo, di sconfiggerlo: Amore vuole che lui la desideri e la osservi, anche morbosamente, fino alla fine dei suoi giorni. È l’amore, insomma, che lo insegue, che lo costringe a un dialogo. Uno tra i più bei componimenti dei Rerum Vulgarium Fragmenta, il XXXV, è la testimonianza più efficace di questo scambio intenso e necessario tra lui e Amore:
Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi e lenti,
e gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio uman l’arena stampi.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti;
perché ne gli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi;
sì ch’io mi credo omai che monti e piagge
e fiumi e selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.
Ma pur sì aspre vie né si selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io con lui.
Francesco soffre, cerca riparo dallo sguardo altrui in luoghi deserti, nelle dolcissime rime che contraddistinguono il sonetto; le le sue lacrime, però, non bastano, così come non serve lo scherno della gente per frenare il suo istinto, per mettere a tacere i suoi sentimenti: l’affetto che prova per Laura funziona da calamita per Amore, che non gli dà pace.
La conclusione è stupenda: “cercar non so ch’Amor non venga sempre ragionando con meco, et io con lui”. La si può leggere come una punizione, come l’impossibilità di tagliare un cordone ombelicale che è vita, di mettere un punto o anche solo un punto e virgola. La si può intendere anche in altro modo: nonostante tutto, Francesco è lì, e vuole Laura: Amore avverte questa esigenza, lo soccorre e ascolta tutti i suoi ragionamenti: un tenero dialogo chiude la scena, è come se suggellasse la necessità di quella presenza:
Laura sfugge, ma, nella sua assenza, è eterna. E lo sarà ancor di più dopo la morte, nella seconda parte del Canzoniere, quando l’unico modo per averla sarà ricordarla, sarà sognarla. Ancora una volta, dunque, una illusione, un sentire qualcosa che non c’è:
Sento l’aura mia anticha, e i dolci colli
veggio apparire, onde ’l bel lume nacque
che tenne gli occhi mei mentr’al ciel piacque
bramosi et lieti, or li tèn tristi et molli.
O caduche speranze, o penser’ folli!
Vedove l’erbe et torbide son l’acque,
et vòto et freddo ’l nido in ch’ella giacque,
nel qual io vivo, et morto giacer volli,
sperando alfin da le soavi piante
et da begli occhi suoi, che ’l cor m’ànn’arso,
riposo alcun de le fatiche tante.
O’ servito a signor crudele et scarso:
ch’arsi quanto ’l mio foco ebbi davante,
or vo piangendo il suo cenere sparso.
Gli occhi del CCCXX sonetto son tristi e molli: la morte di Laura ha scombussolato il poeta e il paesaggio: le speranze e i pensieri di averla con sé non potranno più realizzarsi; le erbe son vedove e le acque, torbide. Ancora contrasti, nella terzina finale: arse per il fuoco ch’ebbe davanti; adesso, piange perché quel fuoco è divenuto cenere. Non trova riposo e non accetta neanche il pensiero di altre donne: Sant’Agostino, guida di Francesco nel Secretum, cerca di spingerlo verso un amore diverso, ma lui rifiuta: l’amore per Laura gli impedisce di sperare in qualsiasi altra cosa che non sia un ricongiungimento.
La canzone alla Vergine, la CCCLVI, è un chiedere pietà, una invocazione alla Madonna, affinché intervenga per porre fine alla sua sofferenza, affinché guidi il poeta, che è prima di tutto amante, in un mondo non più dominato da Laura, una dimensione priva di contrasti:
Il dì s’appressa, et non pote esser lunge,
sì corre il tempo et vola,
Vergine unica et sola,
e ‘l cor or coscïentia or morte punge.
Raccomandami al tuo figliuol, verace
homo et verace Dio,
ch’accolga ‘l mïo spirto ultimo in pace.
Quella stessa dimensione nella quale il lettore è immerso sin dal sonetto premiale, quello che, aprendo tutto il Canzoniere, ne fissa i limiti, ne individua l’alfa, l’omega e tutti gli sviluppi. Passato e presente annientano la dimensione futura: in Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono, c’è spazio soltanto per la memoria eternatrice, per l’ingenuità del passato e l’amara consapevolezza del presente, “’l conoscer chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno”:
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,
del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.
Molto spesso, scartiamo poeti solo perché di altri tempi: odiamo Dante perché la sua opera ci viene imposta (eppure, in lui troviamo tracce di grande modernità); per la stessa ragione, non sopportiamo Petrarca. Dimentichiamo, però, che l’esperienza umana accomuna presente e passato, avvicina due dimensioni storiche completamente diverse: riconoscersi in Petrarca in particolare non è difficile; cercare punti di contatto con la sua poesia, altrettanto.
Non serve menzionare la sua fortuna, il neopetrarchismo e l’antipetrarchismo per provarlo: basta leggere questo percorso dell’anima che è il Canzoniere; un percorso che necessita di interpretazioni infinite, perché sono i nostri sguardi che regalano vita all'autore, che gli permettono di offrirci la sua testimonianza.
Scoprire di non essere così lontani dal passato è strano ed entusiasmante allo stesso tempo; capire che possiamo arricchirlo, che non siamo in ritardo rispetto ai tempi andati e che, anzi, le nostre letture superano qualsiasi barriera temporale, lo è ancor di più: è questo il senso dell'Umanesimo di Petrarca: quello della vicinanza, o meglio dell'avvicinamento, grazie alla condivisione.