di Eugenio Scalfari
Einaudi, 2010
pp. 286
€ 19.50
Come alcune delle opere più celebri della letteratura occidentale, Per l’alto mare aperto, è un libro incentrato su un viaggio che si compie lungo secoli di storia. Il protagonista, assistito da guide di rilievo come Diderot, si muove lungo quella linea che dall’Illuminismo ha condotto alla poesia di Montale e all’arte letteraria di Calvino, le cui tappe scandiscono l’avanzare dell’età moderna e il progressivo affermarsi di una coscienza storica e culturale che l’ha caratterizzata e profondamente incarnata. L’idea di fondo che percorre il testo è che quest’età si sia conclusa, alla fine di questo secolo, cedendo il posto ai contemporanei, che illuministicamente Scalfari definisce “i barbari”. Essi ignorano i valori dei moderni, scrivono e parlano in una lingua diversa da quella loro, non hanno fondato la loro civiltà sulle stesse idee. Anzi... probabilmente sono sprovvisti di un’idea fondante di società. L’approdo a quest'era che noi tutti viviamo e la sua definizione critica sono funzionali alla valorizzazione di secoli di storia in cui gli uomini hanno dato i migliori frutti di cui la cultura dispone: l’Enciclopedia, gli Essais di Montaigne, la scoperta dell’Io cartesiano, la metafisica da Spinoza a Kant, la rivoluzione del sentimento leopardiano e del Faust goethiano, fino ad arrivare alla problematicità di Kafka, al recupero proustiano del passato, a Guerra e Pace e alla nietzschiana morte di Dio. Tutte tappe di un itinerario dello spirito, un dantesco itinerarium mentis in Deum, laddove Dio è probabilmente quel traguardo di perfezione raggiungibile laddove ragione e sentimento si equilibrino perfettamente. Scrittore e giornalista illuminista che ricerca la solidità dei vacillanti valori della cultura moderna, Scalfari ha la consapevolezza di chi sa di vivere un momento di passaggio e vorrebbe frenare l’avanzata dei barbari. Il libro è interessante perché stimola il lettore a porsi alcune domande sul senso dell’evoluzione storica e sul nostro essere appartenenti a una civiltà culturale che affonda le sue radici nella classicità e arriva, alla montaliana “Casa dei doganieri”. Porta a domandarsi quanto e cosa di essa permanga, come e se ciò si stia coltivando, che cosa saremo in grado di donare alle generazioni future perché continuino a edificare. E, quando si arriva all’ultima pagina, ti conduce a chiederti se realmente i contemporanei possano essere definiti “barbari”, con un senso di perplessità nel constatare che, forse, tutti noi ne siamo parte.
È probabile, tra le molteplici letture, che la voce di Scalfari sia il canto del cigno di chi non sa rassegnarsi alla scomparsa di qualcosa che ha vissuto e fatto proprio e probabilmente non vede che, per qualcosa che si perde, c’è anche qualcosa che nasce. O forse è lo sguardo lucido di chi si sente investito di una “missione” e profetizza l’avvento di un’età nuova. Al lettore la scelta. Al di là della impostazione ideologica di fondo e della tesi – condivisibile o meno - che l’autore esprime, quello che emerge e più cattura del libro è lo sguardo appassionato di un lettore che ama rivivere le tappe più gloriose del nostro passato e sogna di incontrare i personaggi di cui ha “divorato” le storie.
Per questo aforismi, citazioni, rievocazioni di celebri passi popolano le pagine di Scalfari e le rendono godibilissime per chi ami la letteratura. Senza mai usare il tono didascalico di chi deve impartire lezioni, l’autore vuole lasciare qualcosa a chi legge: probabilmente lo stesso orgoglio e il forte senso di appartenenza a qualcosa di grande che ci ha preceduti, più che una visione amara e pessimistica del nostro futuro. La scrittura è poetica, spesso si adatta nel registro e nella scelta lessicale, agli autori e alle epoche di cui parla e si connota per l’eleganza che, però, non pregiudica la fondamentale chiarezza. L’opera non vuole essere né un romanzo tout court né un saggio, né un trattato filosofico, vuole essere la rievocazione di un viaggio nel senso più profondo del termine: quello alla fine del quale si ritrova o, forse, nel suo caso, si perde se stessi.
E l’autore non può che affidare la conclusione alle parole di Montale:
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
In fondo, è il canto di chi invita a “modificare l’identità senza smarrire la memoria".
Claudia Consoli