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SCRITTORI E GUERRA: il peso della forza e l'attesa della pace in Simone Weil

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Simone Weil, la grande e singolare pensatrice alsaziana prematuramente scomparsa nel 1943 in un sanatorio del Kent, non fu, almeno direttamente, una teorica della guerra. Lo fu però trasversalmente, visceralmente, ai margini di una produzione speculativa centrata su temi che costituiscono l’hard core della guerra, del suo insuperabile ostacolo epistemologico: il bene e il male, la giustizia, la sofferenza, la distanza abissale fra umano e divino. Lo fu per vocazione esistenziale, per la presenza di quell’ananke destinata ad attraversare tutti gli spiriti dotati di autentico senso tragico.

La sventura storica del conflitto mondiale, con i suoi cupi prodromi, segna la vita di questa donna sin dagli albori. Ebrea per parte di entrambi i genitori, ma allevata in un genuino spirito laico, sarà sempre lacerata fra un’impotente solidarietà verso la sua gente e una lucida distanza critica nei confronti del dio d’Israele. Un dio giudicato da Simone troppo lontano dalla legge dell’amore e quindi per lei freno, fino alla fine, ad abbracciare qualunque confessione monoteista, compresa quella cristiana; nonostante una forte attrazione per la figura di Cristo, coltivata per tutta la vita e culminata in veri e propri “insight” mistici. Educata nelle migliori scuole e allieva prediletta del filosofo Alain, non volendo degradare la propria superiorità intellettuale a odioso privilegio, giunge a calpestarla, preferendo per alcuni anni all’insegnamento il duro lavoro in fabbrica e nei campi. Un’esperienza decisamente usurante per una giovane donna di salute cagionevole, e tuttavia affrontata con eccezionale energia, così come le altre attività più direttamente connesse al conflitto: la militanza nella guerra civile spagnola, interrotta da un incidente; l’instancabile opera, a Marsiglia, a favore di prigionieri e internati; le manifestazioni antifasciste parigine; poi, nell’ultimo soggiorno a Londra, il lavoro di redattrice presso “France Libre”.
La guerra è dunque, nella teoria e nella pratica, una presenza inseparabile dalla vita di Simone Weil, che già adolescente intuisce la minaccia incombente sul secolo e la esprime con gli strumenti simbolici che è in grado di manipolare: da bambina la fiaba, poi i versi – in seguito, per stessa ammissione dell’autrice, diradatisi per una sorta di autocensura creativa; infine la prosa saggistica e la più distesa scrittura poetica della tragedia (nell’incompiuta Venezia salva). Ma soprattutto gli aforismi, spesso paradossali nella loro levigata durezza, che rappresentano il limpido distillato di moltissime pagine di appunti sparsi. In tutta questa produzione, ormai ben nota ma quasi completamente inedita durante la vita dell’autrice, l’opera della Weil e l’ombra della guerra si accompagnano come una foto e il suo negativo. Non è soltanto il conflitto presente, nella sua tragica contingenza, a scuotere la coscienza dell’autrice; è la guerra come categoria metafisica, o meglio la sua fonte netta e inestinguibile, il male.
Nel saggio L’Iliade o il poema della forza, scritto all’indomani della dichiarazione di guerra, emergono per la prima volta un tema e una caratteristica che rimarranno costanti nel corso della sua intensa speculazione. Il tema è il malheur, la sventura, che schiaccia i vinti ma anche i vincitori, a loro volta trascinati in un vortice di micidiale alternanza, sotto il giogo di quella necessità già ben nota ai greci. La caratteristica è quella di una scrittura assolutamente originale, che penetra con la medesima punta di diamante nel simbolico letterario come nella concretezza storico – esistenziale; l’esperienza di un libro viene così restituita con gli stessi colori della vita, dell’amore e del dolore.

Non a caso nel Saggio sulla nozione di lettura, scritto nel 1941 e pubblicato postumo, la Weil paragona ogni interpretazione del mondo a quell’atto così quotidiano, eppure misterioso, che consente di decodificare tanti piccoli caratteri scuri sul foglio; caratteri di per sé insignificanti, ma capaci di trascinarci emotivamente, direbbe Dante, «come cosa salda». Anche in questo scritto, apparentemente lontano dalla guerra, essa fa capolino con inquietante acribia, paragonabile a quella di un raggio laser: «la guerra, la politica, l’eloquenza, l’arte, l’insegnamento, ogni azione sugli altri consiste essenzialmente nel mutare ciò che gli uomini leggono», scrive l’autrice.
E’ emblematico l’accostamento con attività in apparenza assai più quotidiane e innocue, anzi utili, ma tutte sostanzialmente volte alla manipolazione dell’uomo. Nel saggio prima citato sull’opera di Omero si analizzano gli infiniti espedienti della forza (quella che altrove è chiamata pesanteur, gravità dell’essere nel mondo, che è poi un altro modo per definire la necessità). Si descrive però con grande lucidità anche l’illusione troppo umana di poter alleviare il peso, di rimediare al malheur con metodi pur encomiabili: ad esempio le riforme sociali, la diplomazia e la politica.
La guerra fa invece parte del mondo e il mondo, dice Simone Weil, «sono gli uomini stessi». E’ un mondo irreparabilmente separato dal creatore, secondo l’autrice: ma non dimentichiamo che, nella sua teologia lacerata e nella sua impossibile teodicea, il contrasto è già nel creatore, nell’abissale distanza trinitaria fra “potenza” e “amore”. La legge del più forte, in altre parole, agisce su Dio stesso e mostra nella guerra il proprio vero volto, ma soltanto a chi può vederlo: ed è chi, avendo conosciuto l’ordine spietato della necessità, sa che tutti, vincitori e perdenti, sono schiacciati dalla medesima forza «diretta verso il basso». Chi crede che il vincente sia tale per merito o per diritto non potrà mai comprendere come il solo limite all’inestinguibile gravità della forza sia proprio la sventura.

Per Simone Weil, studiosa di spiritualità orientale, oltre che di cultura classica, la figura in cui potrebbero coniugarsi lo spirito tragico attico e l’“azione non agente” è il guerriero Arjuna: costui, incitato a combattere da Krsna, con l’argomento che qualcuno comunque lo farà, accetta di scagliare la sua lancia; ma a differenza del tronfio Achille non interiorizza la forza, non raccoglie per sé i frutti dell’azione violenta cui si sottomette. C’è un unico guerriero che combatte senza obbedire ai parametri della violenza, ed è Eros figlio del bisogno, così com’è presentato nel Simposio platonico: è l’altro dalla forza, in rapporto di assoluta esteriorità rispetto ad essa, presente all’uomo soltanto in condizioni di completo vuoto interiore. Ma un simile essere non può incarnarsi nella realtà: può esistere in absentia, in ciò che la Weil, richiamandosi a San Giovanni della Croce, descrive come «la sola notte», o l’«assenza che scopre la presenza». Proprio in quanto grandezza incommensurabile, dunque, l’amore non può annullare la forza. Questo è il motivo per cui la guerra non potrebbe cessare, quand’anche gli esempi morali dell’equidistanza di Arjuna o della soavità di Patroclo fossero seguiti. Omero ha cantato la necessità della guerra in un poema che, per la coscienza del significato universale della sventura, è quasi l’equivalente poetico della giustizia.
Un analogo pressoché inarrivabile nei tempi moderni, ai quali Simone Weil riconosce un fatale degrado artistico, dovuto alla perdita di senso del valore e ad un artificioso prevalere dell’immaginazione sulla realtà. La sua severa estetica non lascia spazio a strumentalizzazioni edificanti o sociologiche della letteratura né, d’altra parte, ad illusioni circa una possibile rinascita futura: la rinascita può giungere soltanto «dal passato, se l’amiamo», e la parola autentica non è affatto quella che progetta un mondo migliore; è quella che dice l’ananke con una precisione capace di annullarne il peso, non per intenzione o sentimento, ma per virtù propria. Come la poesia di Omero, come la scrittura di Paul Valery, uno dei pochissimi esempi contemporanei – secondo l’autrice – di tensione verso l’esattezza.

Una geniale interprete di Simone Weil, Cristina Campo, scrisse negli anni Sessanta che «ogni forma d’ingiustizia è nella sua essenza un errore di disattenzione». Forse anche la guerra nasce da una distrazione suprema: il rappresentare sempre e soltanto le nostre ragioni, dimenticandoci di quelle altrui. Il chiamarci fuori dalla comune sventura, sostituendo alla gravità i nostri presunti meriti, la superiorità di mezzi e ragioni. Nelle Lettere contro la guerra Tiziano Terzani intuisce finemente che il teatro, mettendo in scena tutti i protagonisti del conflitto, serve a far riflettere sulla vanità della violenza. Aggiungerei però che il discorso è vero soprattutto all’inverso: per interiorizzare il messaggio dei tragici occorre, paradossalmente, esser già convinti dell’equivalenza delle parti in causa e quindi dell’insostenibilità di una vittoria “giusta”, la sola che potrebbe portare alla famosa pax perennis. Il dilemma fra bene e male, fra grazia e violenza non ha soluzione possibile.
La ricerca di Simone Weil, che pur sapendo e dimostrando tutto questo ha accettato di spendere la sua breve vita per gli altri, rimane una fra le testimonianze più lucide di come la disillusione radicale non porti necessariamente al cinismo, alla nichilistica perdita di ogni valore. Essa può invece condurre al miracolo dell’attesa pura, del «desiderio privo di oggetto». Quindi ad amare un mondo senza guerra, anche se siamo coscienti che un simile mondo non esiste e non potrà neppure, utopisticamente, essere costruito.

Alessandra Paganardi