Francesco Scardone, Necrophylia: sesso con la morte e necessità di vita

Necrophylia
di Francesco Scardone

Meda (MI), MJM Editore
pp. 169


"Per la maggior parte di noi la vita diventa un bisogno, una necessità, pensiamo ogni giorno di non poterne fare a meno, della vita, eppure ogni volta che guardo questi visi freddi, queste mani artigliate nell’ultimo saluto alla vita, mi convinco sempre più che non sia così indispensabile poi, il vivere, così presi dalle nostre insulse esistenze, i nostri microscopici problemi… quello che senti non è il pianto delle cose che stanno morendo, quello che senti è il loro grido di liberazione" – il protagonista di Necrophylia blocca il racconto con una riflessione neanche tanto ponderata sull’esistenza.

È una pausa che qualcuno potrebbe considerare un punto di rottura rispetto alle prime pagine, ma così non è: questo momento, infatti, si amalgama perfettamente con l'avanzare di una lotta continua e voluta con la vita.

Quest’uomo qualunque – così come lo definisce Francesco Scardone – sfida l’esistenza a stretto contatto con la morte, con i cadaveri. Li osserva, prova ad immaginare la loro vita per qualche istante, li penetra. E così, a intervalli, per quasi tutte le centosettanta pagine. Potreste considerarlo un pervertito, un malato, un folle, un pazzo, potreste riservargli gli aggettivi peggiori. Non sbagliereste. A tal proposito, infatti, la quarta di copertina è chiara: “Un viaggio nella mente malata di un uomo qualunque. Potrebbe essere il tuo compagno di banco, un tuo collega, un vicino, comunque uno nascosto dietro la maschera della normalità. Potrebbe essere il riflesso che ti osserva dallo specchio quando ti fai la barba.” Potrebbe essere chiunque, insomma. Fatto sta che definirlo pervertito non è sbagliato. Anzi, è poco.

Se il protagonista è un depravato, noi siamo degli ipocriti. Almeno secondo lui. In fin dei conti - scrive - “io non sono malato, non lo sono più di quanto tu non lo sia, […] non sei di certo più sano di me”. Questo è uno tra i due momenti dell’opera, forse il più fastidioso. È comprensibile: la sfida alla morale comune è elevata all’ennesima potenza, il sesso con i morti diventa l’argomento principale di questo flusso di coscienza ricco di sequenze descrittive ben costruite.

E che dire della simpatica nonna Esther, quella che si improvvisa parente del morto di turno, che “tira giù i pantaloni di mio nonno. Poi le sue mutande. Poi resta a guardare per qualche secondo il pisello di suo marito, quel grosso ammasso di nervi e vene che per qualche strano motivo mi costringevano a chiamare pipino. […] E con la forbice lo recide”? Anche lei, povera vedova, è protagonista di questo dialogo perverso con la vita, di questa sfida all’ultimo strano rapporto. Ne farà di strada, nonna Esther. Incontrerà Azul e potrà finalmente godersi gli ultimi mesi della sua esistenza.

Qui, però, siamo già al secondo momento di Necrophylia, quello in cui tutto cambia, quasi come se il protagonista, che è l'unico a poter filtrare ciò che vede, fosse schizofrenico. In realtà, un cambiamento del genere non sarebbe dovuto arrivare inaspettato: in fin dei conti, vita e morte sono due facce della stessa medaglia. Se decidi di sfidare l’una, non puoi negare la sua esistenza, anzi finisci col darle la massima importanza.

Così, in effetti, succede: “[…] Penso che, alla fine dei conti, anch’io ho bisogno di vivere. […] Mi invento la vita per far parte di essa. Faccio finta che essa esista sul serio per cominciare a vedere che sapore ha. Entro nel gioco, insomma!”. La lettura, almeno adesso, procede velocemente, senza ostacoli: il lettore non è infastidito, anzi prova persino piacere per questo cambio di rotta improvviso, per la tanto desiderata "moralizzazione" dei contenuti; guarda quest’uomo malato con occhi diversi: si è redento, ha capito che il fine ultimo dell’esistenza è la vita stessa; insomma, gli passano per la testa una serie di idee che lo intrappolano, per la seconda volta.

C'è, infatti, un terzo momento che corrisponde al primo e disturba chi legge, a tal punto da fargli credere che Francesco Scardone abbia solo e soltanto intenzione di prendere in giro il malcapitato di turno. Così, non è. La quarta di copertina, ancora una volta, ci aveva avvisato: “A cavallo tra la più nera follia e la più irrequieta lucidità. Un’immagine quotidiana vissuta tra vita e morte. Si ha sempre l’impressione di non vivere ma di sudare l’esistenza. Un romanzo che mostra le due facce della stessa medaglia”. Se di due facce si tratta, insomma, bisogna aspettarsi qualunque cosa: cambiamenti improvvisi, ritorni al passato, finale a sorpresa. Bisogna essere pronti a tutto, anche quando l'autore stesso ci è nemico.

Il modo in cui si è mosso è stato solo accennato: sarebbe stato impossibile riprodurre tutti i momenti dell’intreccio. Impossibile e, in un certo senso, inutile. Meglio focalizzarsi sul messaggio, sulle sequenze riflessive che fanno di questo un buon esordio. L’intervista a Francesco si preannuncia davvero interessante: ci sarà pure un motivo se, per sfidare l’esistenza, ha scelto questo mezzo. Ancora una volta, dunque, la recensione e il commento non bastano. C'è bisogno di completezza, dell'autore, della mente che partorisce il tutto.

Michele Rainone