Andrea Marchesi è un poeta petroso, da leggere e rileggere molte volte. Poeta di “beffardo pessimismo” e di “alto impegno civile e morale”, come si legge nella prefazione di Gianfranca Lavezzi; ma anche consapevole innovatore della lingua poetica in una forma tutta sua, particolare e raffinata. Ed è un poeta dai molti ritmi: cominciamo dal verso lungo, esondante, della prima sezione (“Ruggini”), destinata ad imprimere alla raccolta un marchio d’originalità - con versi memorabilmente epigrammatici:
“La ruggine insegna al metallo la stanchezza” (pag. 14),o con distici di nudo, assoluto stupore, quali
“Guardare è un capire sospeso” (pag.30).
“Ognuno è la sua isola assediata” (pag. 28);
“Cielo in bilico su queste case perenni/ disabitate alcune come la felicità” (pag.20).
Questa stessa sezione, vero e proprio vestibolo della raccolta, ci introduce nella inquietudine severa di un autore avvezzo alla sincerità e all’asprezza, allo scavo interiore e alla caparbia incapacità di accettare la violenza del mondo. Ma proprio nell’andare senza posa, nel cogliere le contraddizioni itineranti di una geografia lombarda che è anche storia emblematica del proprio Sé, il poeta trova la vera dimensione di ricerca interiore di ricerca non più intimistica, bensì universale:
Si slaccia l’Oltrepo in un immobile sbadiglio/ e stanno alberi come vele di pianura.// Squarciare la nebbia ancora oltre/ quelle dita di pioppi sbiancati inesistenti./ Oltre quelle crude strade balbuzienti di traffico./ Oltre l’orizzonte smagrito e teso cucito al grigio./ Oltre quelle trame che svaporano/ qualche penosa grazie di sole,/ luce di un malessere stanco di illuminare /l’oggi già al mezzogiorno.// Ora la strada s’ingrassa/ di colossi muti e dentro i Nessuno,// piegati a sciami chiassosi d’antenne./ Le strade ora non più strade/ ma abbracci di smog e lanci/ al chilometrorario da tangenziale./ Verso Milano.// L’uomo corre a moltiplicare la sua imperfezione/per noia e stanchezza. (pag. 26)
Dal poeta come individuo al poeta come rappresentante dell’Umanità: questa è la via buona della ricerca, quella che conduce dai “lunghi fiati sul Ticino” alle vie del mondo, alla storia degli altri. Al proclama, anche, come nella seconda sezione “Incivilitudini”, ispirata all’esempio morale e politico di Enrico Berlinguer; all’elencazione, come nella terza sezione dedicata all’Africa e in particolare al Madagascar. Quando si è abitati da una voce poetica senza compromessi né pregiudizi, si esplora la parola come esperienza infinitamente rinnovabile: a costo di peccare di talune inevitabili ingenuità, o di essere quasi programmaticamente impoetici. Fino alla quarta e quinta sezione, vero cuore del libro, anticipate da autentici germogli poetici: come la bellissima “Autenticità dei santi”, dedicata al nonno (pag.18):
Apri e sembri d’ossa rotte il muro o di bianco quello spolpato. Chissà quante vite si consumano/ senza capirne la consistenza./ (pensava)/ “bisogna essere magri per mangiare”/ come in tutto/ “nemmeno il cucchiaio arriva in bocca”/ senza tossire/ senza soffrire (……)
Niente più Svizzera o montagne partigiane/ solo corse al reale di piatti acciottolati/ solo pendii niente ascese/ solo denti finti, fitti di buchi neri/ come il sorriso già deciso/ come il ricordo.// Momenti di una strofa interrotta queste montagne/ tra pentagrammi di cielo e orizzonte,/ sue insieme all’aria e a qualche ruggito/ dei leoni di montagna sognati spesso./ Contempla l’orto e chiede ancora alla terra/ e sta nell’aspettare qualche parto d’uovo./ “Vedi, vite generano e si masticano tra loro”/ per concedersi poi qualche doloroso nulla (pensava)./
Un’agiografia eretica, destinata ad espandersi in inediti che costituiscono, come tutta questa raccolta, un “planare orizzontale”: volo radente da e verso la realtà, coscienza critica in poesia di un tempo sbagliato, di cui il poeta avverte sulla pelle l’ustione. E siamo all’omaggio a De André, che ha saputo portare al mondo la critica sociale e trasformarla in poesia:
“Sgrano le mie sigarette come rosario/ e si parano davanti ai miei fumi/ cave infinite di dolori “ (pag. 45).
Ma siamo anche alla sezione-clou del libro, la quarta, quella delle poesie d’amore. Qui la vena poetica di Marchesi tocca i suoi vertici, come se l’acido corrosivo dello sguardo si ammorbidisse, concedendosi soste inattese verso l’irraggiungibile che pur si sfiora, si respira :
“Sei un fantasma di mancanze e perdite/ mentre la via (pag. 73) .
“Sei terra maestra/ isola di luminescenza, pace risolta (…)” (pag. 79).
“Sei quella schiuma di perfezione che rabbocca l’anima/ madre di splendore” (pag. 80).
“Grazia” e “maestà” sono parole che tornano insistenti, ad approcciare la luce altra dell’universo femminile, il suo fecondo e per certi aspetti intraducibile splendore. Arriviamo infine all’ultima sezione, De horis bestialibus.: un breviario che realizza, nella misura di sedici triple terzine abbreviate e ritmate sulle ore di veglia, una teoria di salmi laici sul giorno, la veglia, l’attività, la produzione, il lavoro. Febo diurno, contro il Dioniso notturno che resta nell’ombra, pantera assetata di luce. Leggiamo l’inizio dell’ elegia antidannunziana del meriggio, le malinconiche ore quindici del giorno in tripudio, eppure già annunciante la sera:
“La solitudine è una finestra indifesa,/ raggiante di fiato nel pomeriggio aspro/ come l’arsura incolore, mordente e immane. (…)”.
In questa sezione, dove i componimenti ricalcano nella forma chiusa la mimesi di un sonetto abbreviato, Marchesi ci dà la chiave del posto che la sua poetica riveste in questo primo quarto di secolo: quella di un’operazione di originale riciclo ironico della tradizione letteraria novecentesca. Non calco, non rimpianto, non innovazione violenta: riciclo, appunto, che svela definitivamente il proprio codice nell’antimontalismo dell’ultima lirica isolata, quasi una sezione a sé: Non chiederci. Qui c’è la chiave di tutto un percorso, come alla fine di una caccia al tesoro che questo libro rappresenta e indica, nell’enigma dei suoi versi disincantati e già maturi:
Non chiederci è all’ apertura d’ogni cosa/ sillaba ridestata nel presente dell’uomo,/ in questo stendere scosso della petrosa/ sopravvivenza vigile della storia.// Nessun meriggiare uccide come questo/ storto di chilometri andati, perenni/ tra l’accendere e il risanare la dipartita /di queste colline, luci d’immobilità.// E tutto compie questa non luce, in nuce/ all’arsura che si placa nel nodoso controluce./ Poi l’accenno ad un senso, questo vento truce irrilevante, marcescente nel portare sera.// Nell’essere, sola cosa sfogliante in questo ritornare.
L’uomo postmoderno è proprio questo: un sopravvissuto alla storia, un futuro perenne epigono. Dopo l’irreparabile morte di dio, dopo le massime tragedie del Novecento, la luce è non più luce, il vento non porta più alcun grande simbolo. Ma sopravvive l’essere, la poesia: che per veicolare senso ha bisogno di un linguaggio particolare, petroso appunto, obliquo (“storto”), inquietante, liminare. Come già dicevo, anche impoetico: proprio ciò che questa opera prima, con coraggio e nettezza, ci consegna quale luminosa ipotesi di lavoro futuro.
Alessandra Paganardi