INCONTRO CON SIMONETTA AGNELLO HORNBY. A SIENA PRESENTAZIONE DEL LIBRO LA MONACA
a cura di Serena Alessi
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Nella sala storica della Biblioteca comunale degli Intronati di Siena lunedì 28 Marzo si è svolto l’incontro con la scrittrice siciliana Simonetta Agnello Hornby.
Palermitana, classe 1945, professione avvocato, la Hornby vive a Londra da ormai quarant’anni. Nel 2002 Feltrinelli pubblica il suo primo romanzo, La Mennulara, che la consacra al successo italiano ed estero (è stato tradotto in 12 lingue: l’algido The Almond Picker, il raffinato L’almandière sono il tentativo di rendere la rotondità musicale del termine siciliano, la mennulara, la raccoglitrice di mandorle). I successi vengono uno dopo l’altro: La zia marchesa (2004) Boccamurata (2007), anch’essi di ambientazione siciliana, Vento scomposto (2009) e Camera Oscura (2010), che si svolgono, invece, in Inghilterra (molto particolare l’ultimo, che racconta la storia di una delle bambine-modelle che Lewis Carroll amava fotografare). Storie nitide come dei film, storie in cui il lettore non avrà difficoltà a dare un volto ai personaggi, un colore ai luoghi, un sapore alle pietanze che vengono sapientemente descritte (non è un caso che il Teatro Stabile di Catania proporrà ad Aprile una versione teatrale de La Mennulara).
Feltrinelli, 2010 |
Alla fine del 2010 compare l’ultimo lavoro della scrittrice: La Monaca. Narra la storia di Agata, monachella forzata che divide tra Messina e Napoli i suoi desideri adolescenziali e il suo bisogno di preghiera. Personaggio affascinante quello di questa ragazza tutta meridionale, che legge Jane Austen di nascosto nella sua cella, che vive il fervore e le delusioni della Carboneria napoletana e assiste all’inizio dello smantellamento della dinastia borbonica. Ma chi frequenta già da un po’ i libri della Agnello Hornby è abituato a queste presenze femminili che difficilmente si lasciano dimenticare: la splendida Costanza Safamita, la misteriosa Mennulara offrono al lettore la sensualità di una femminilità disvelata a poco a poco e il calore di affreschi collettivi che ricordano le saghe familiari dei romanzi sudamericani. Il tutto incorniciato da una Sicilia fotografata sempre sul punto di una svolta: i moti del 1820, l’unificazione italiana, l’infiltramento sempre più forte della mafia nei terreni nobiliari. Ma si può parlare di svolta per una regione particolare come la Sicilia, oppure si deve dare ragione al Tancredi de Il Gattopardo e al suo “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”? Lo abbiamo chiesto alla scrittrice:
Calvino scriveva a Sciascia nel ’65 : “Da un po’ di tempo mi accorgo che ogni cosa nuova che leggo sulla Sicilia è una divertente variazione su un tema di cui ormai mi sembra di sapere già tutto”. Cosa ne pensa di questa frase? Perché scrive della Sicilia nei suoi romanzi?
Io parlo della Sicilia nei miei libri perché è la mia infanzia, la mia origine. Ho la fortuna di scrivere ciò che mi piace, e rifiuterei di essere ghettizzata come una che parla solo della Sicilia perché non mi sento io così: io per metà sono inglese. Amo la Sicilia, sono molto fiera di essere siciliana e mi dichiaro siciliana, il che ovviamente non è facile a Londra. C’è, però, un tipo di letteratura sulla Sicilia che io aborro: è quella che parla dei siciliani compiaciuti, quel “noi siamo fatti così” autoreferenziale e autodistruttivo. Si deve cercare di migliorare perché la letteratura ha sì il dovere di dare piacere, ma anche di educare, di guardare al futuro. I miei romanzi sono nati nelle maniere più diverse: La Mennulara è frutto di una visione aeroportuale. Mi stupisce ancora pensarci…! L’aereo era in ritardo e non avevo niente da fare: ho avuto una sorta di illuminazione e la storia della Mennulara mi è apparsa come in un film. Avevo voglia di raccontare quella storia e, siccome non ho idea di come si faccia un film, l’ho scritta. Ed è nato il mio primo libro. La zia marchesa l’ho scritto dopo La Mennulara, ma prima di trovare un editore. Era la sorella del mio bisnonno e da sempre in famiglia sentivo dire cose cattive sul suo conto: “brutta come la zia marchesa”, “cafona come la zia marchesa”. Perfino Pirandello fu incuriosito da questo personaggio e parlò, male, di lei nella novella Le tre vedove. Sentivo la voce della mia antenata dirmi “Scrivimi giusta! Scrivimi giusta!” e io lo feci: mi sembrava un dovere contro le ingiustizie di casa mia. Anche nei prossimi libri la Sicilia sarà sempre presente: tra un po’ uscirà per Sellerio Un filo d’olio, dove raccolgo i ricordi culinari delle estati siciliane della mia infanzia. L’anno prossimo uscirà per Feltrinelli un altro libro ambientato in Sicilia, dove parlerò di mia nonna Maria. Ciò che mi attira è parlare della famiglia, riscattare i personaggi della mia memoria. Mi piacerebbe se i miei nipotini, inglesi, un giorno riuscissero a leggere ciò che scrivo, visto che io in realtà scrivo per loro.
Riscatto di una meridionalità? Dato il mio lavoro io mi oppongo ad ogni tipo di ingiustizia, a prescindere dal luogo in cui si produce (la Hornby si occupa di diritti dei minori, delle comunità nere e musulmane; fonda nel 1979 il primo studio legale in Inghilterra con un dipartimento riservato ai casi di violenza familiare, Ndr). Sarei tristissima se fosse una cosa solo siciliana. Sono contro ogni tipo di ghettizzazione: più che la sicilianità io sarei più propensa ad indagare una mediterraneità, amorfa e attuale.
Com’è nata La Monaca?
All’inizio doveva essere la storia di due ragazze, una islamica, Miriam, scappata da casa perché volevano farla sposare contro la sua volontà, e una napoletana, Agata, costretta alla monacazione. La storia di Agata mi ha preso così tanto che l’altra ragazza è scomparsa dal libro. È sempre sbalorditivo quando i personaggi prendono vita propria e impongono all’autore la propria presenza: a un certo punto la monachella faceva quello che voleva! E io mi sono ritrovata, ad esempio, a leggere i libri che anche Agata leggeva, per comprenderla meglio. Ciò che mi ha attratto delle monache è stato il loro desiderio di astrarsi dalla gente per pregare per loro. Dopo il Concilio di Trento c’è stata tanta letteratura che ha parlato male della monacazione: io volevo vederne i lati positivi. Così mi sono documentata (il momento delle ricerche prima della stesura del libro è bellissimo, quasi quanto quello della scrittura), sia leggendo le fonti (ho studiato a lungo la storia di Enrichetta Caracciolo, ad esempio), sia indagando di persona. Ho fatto 39 visite in 19 conventi. Ho conosciuto molte monache felici, che sono andate anche contro la famiglia per seguire la loro vocazione. Certo ho letto anche di molti episodi di violenza all’interno dei monasteri, come, del resto, ho descritto anche nel libro. Basta imprigionare degli individui e il peggio di noi viene fuori e tra le monache spesso vi erano atti di irrazionale crudeltà (come non pensare all’enfers di Huis Clos? Ndr). Non volevo, però, che la mia eroina soffrisse di sensi di colpa: alla fine del libro la monaca doveva pensare di avere Dio con sé, e così ha fatto!
Perché ha scelto questo particolare contesto storico (metà Ottocento) e geografico (Messina, ma soprattutto Napoli)?
L’Ottocento per me rappresenta la vera rivoluzione nella storia dell’uomo, sia dal punto di vista storico che tecnico: è col treno che cambia veramente tutto. E Agata la sente tutta questa trasformazione,tramite le sue scelte, le sue letture guidate. È il secolo del Romanticismo, che porta una splendida innovazione: l’amore come fatto accettabile e socialmente accettato. È poi il secolo dell’unificazione italiana: anche se ci siamo formati male è importante conoscere e studiare quel periodo di formazione dell’Italia. A Napoli ho scoperto una ricchezza straordinaria: è lì che è nata la Carboneria, è lì che c’era già un senso di Italia. Messina, invece, è sempre stata una città trattata male. Prima del terremoto del 1908 era una delle città più ricche ed intelligenti della penisola. Arrivavano stranieri da tutto il mondo, grazie allo stretto che attirava i naviganti. Era una città libera: ad esempio gli inglesi potevano tranquillamente frequentare le chiese valdesi. A Palermo Agata non sarebbe mai potuta scappare in piazza, a Messina sì.
Ci parli delle figure maschili di questo libro.
Il padre di Agata è una persona tollerante,ma profondamente egoista. Forse, nel descriverlo, ho pensato a mio zio. Fa parte di una tipologia di uomo molto ottocentesca e molto siciliana. La figura del Cardinale rappresenta uno dei grandi vinti del libro. È costretto a farsi monaco, mi fa una gran tristezza. Il primo innamorato di Agata, Giacomo Lepre, è facile da immaginare: è il tipico giovane romantico,di quelli di cui non si sa cosa dire quando muoiono. È una figura che impallidisce man mano che passa il tempo. È stato James il personaggio più difficile con cui mi sono misurata. Sapevo che la scelta di un personaggio inglese avrebbe corso il rischio di essere considerata come autobiografica (il marito della scrittrice è un inglese, come il personaggio, ndr), ma non è affatto così! James è un “romantico duro”: uno di quelli che prende quello che vuole, ma dà delle garanzie. E non è facile descrivere un innamorato come lui! Di James dico poco, ero indecisa se aggiungere un altro capitolo alla fine del libro, più esplicativo sulla sorte dei personaggi. Feci decidere al mio editore, che mi disse che andava bene così! Ho avuto la tentazione di parlare di più di James ma, oltre alla grande paura di cadere nello sdolcinato, volevo che i lettori avessero lo stesso punto di vista di Agata, che di James non sa quasi nulla. È strano come questo sia il mio primo romanzo d’amore…e i lettori non se ne siano accorti!
Quali sono, se ne ha, i suoi modelli letterari?
De Roberto, che secondo me è il più grande tra gli scrittori siciliani. Poi Tolstoji, Dickens, i francesi (Balzac, Flaubert, Proust), Cervantes...insomma, i classici!Io leggo poco di contemporaneo: mi sono iscritta ad un Book Club proprio per avvicinarmi ai contemporanei inglesi. Questo è un difetto: noi “vecchi” ci dobbiamo sempre aggiornare, voi giovani potete permettervi il lusso di guardare al passato. Noi che siamo il passato dobbiamo conoscere il presente (e aggiunge: “mi raccomando scrivi quest’ultima frase che è importante!” ndr)
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Una grande simpatia e affabilità quella che irradia Simonetta Agnello Hornby (non è da tutti gli scrittori dire “e quando passi dalle mie parti mandami una mail che ti faccio vedere Londra come dico io!”). Dopo averci concesso quest’intervista, la scrittrice ha continuato a rispondere alle domande dei lettori senesi, affascinandoli con le sue storie e con ricette di sfincioni dettate con forte accento palermitano.
In attesa delle sue prossime fatiche, fare un salto in libreria ed acquistare La Monaca è una scelta che ci sentiamo di consigliare. E sarà una bella sorpresa per tutti coloro che si avvicinano alla scrittrice palermitana per la prima volta, qualora rimanessero colpiti da questo libro, decidere di continuare con la lettura della Hornby e scoprire quale sensualità, quale fascino e quale mediterraneità si celino dietro ai suoi primi due romanzi.