di Simone Ghelli
Il Foglio, 2011
pp. 85
€ 10.00
Lo so che un autore non dovrebbe mai parlare in questi termini, dare il minimo segno di cedimento, ma il mio destino è quello d'immergermi sotto la superficie.
Perché Simone Ghelli, cecinese (LI) classe 1975, scrittore e critico cinematografico, senta il bisogno di anteporre alla lettura del suo ultimo libro una simile precisazione, è proprio ciò che questi undici racconti, tendenzialmente nel modo Migliore possibile, concorrono, di primo acchito, a sviscerare.
O forse, piuttosto, è ciò che la sua scrittura, materica e ragionativa, spererebbe, capricciosamente, di camuffare, sfumando la sagoma ingombrante dell'autore, dietro ad una dissestata cortina onirica, sbrindellata da voli pindarici e trip allucinogeni, fobie ricostruite e memorie futuribili, tutte trafugate, perniciosamente, dal regno atavico delle infinite possibilità.
La cronologia è arbitraria, a tratti casuale, zeppa di caselle vuote.
Così, rimescolando i carteggi e sparigliando la dialettica, capita di perdersi in un gustoso e sapido divertissement dalla toponomastica inquieta, laddove persino Le strade della filosofia hanno programmaticamente imparato a debordare, con stipsi agorafobica, da quella bozzettistica selva interiore che è L'argine delle abitudini, slabrando il cappio del quieto vivere attorno alle inclinazioni più asociali, alle meno condivisibili escursioni filmiche, tanto meditabonde e sardoniche, irriverenti per indolenza, quanto per inerte abulia, appunto, mai appaganti.
Si finisce allora, disperatamente,maneggevolmente, per accettare Passaggi dagli sconosciuti, nella consustanziale illusorietà di un'inebriante via di fuga, che sia prospettico quanto ridanciano escamotage metaletterario, per svincolarsi solo un istante, o un'Ora forse, dalla propria individualità paradossalmente diffidente, da quella ossimorica inclinazione alla salvaguardia del pericolo, cui fa costantemente da monito La sentinella di ferro della surrettizia, sbandierata (in)coscienza.
Era quello il suo posto: il punto di stallo, la giuntura fragile dell'ingranaggio, il tempo in cui tamponare le falle aperte da altri racconti.
Attenti allo Sceriffo neuronale, dunque, sempre in agguato: lo psichiartico rivolgimento del moraleggiante sussurro, echeggia, da copione, nelle più classiche intimità ortogonali, per dipanarsi, lesto, quale proiezione di una patologia collettiva, che ancora e sempre rimodula, nel vivo bisogno di appartenenza a qualcosa - che sia pure Qualcosa di stupido! - la propria accettazione inversamente dogmatica, stancamente soggiogata, quale tenace rivendicazione nei confronti di un fatiscente qualcuno, o ancor meglio, di un'entità che, seppur biecamente lungi dall'apparire eterea, sappia però suggere, garbatamente, L'amore a mille lire, nella più sublime delle spersonalizzazioni estatiche da Microcefalo.
La useranno per copiare i minuziosi diagrammi in cui crepar di stenti il sogno, forma vuota impigliata ai rami secchi delle mani che a riempir penserà il domani.
Estasi mitopoietica, dunque, non strumentalizzabile, quasi rimata per contrappasso barocco, è quella riscritta da un autore polimorfo, che si finge se stesso per sfuggire alla canonizzazione dei dettami formali, seguendo, in flashback, il prolisso consiglio di un ammutolito Osvaldo dell'anima sua.
Spersonalizzazione da Cormorani, invero,
difensori silenziosi di piccoli atolli dispersi nel nulla.
quali sono, poi, tutti i cittadini senzienti, delocalizzati in questa labirintica terra del (dis)senso, albatri baudelairiani della civiltà capitalizzata, ormai psichedelicamente ridotti ad
automi isterici, risucchiati da mulinelli di vento verso angoli senza gravità.
E' proprio per raccontare il suo tempo, cosmogonico e intimista, storiografico e freudiano, che Ghelli si immerge, dunque, con alacre levità, nell'acquario delle mostruosità quotidiane, fluttuando scientemente tra i pertugi limacciosi del timorato dire sociale, del sentire paurosamente comune.
A poco a poco il mondo cominciò nuovamente a roteare intorno alla mia testa: brevi inquadrature legate tra loro da raccordi sbagliati.
L'ora migliore, quindi, ottima parodia del ripiegamento autoreferenziale che avvince, vittimizzandolo, il prototipo dell'autore compulsivo, non è altro che quella deputata alla scrittura, forse, senza infingimenti, senza retoriche, senza, poi, realtà alcuna.
Si mostra bella la parola, non v'è dubbio. Un luccichìo buono da prender gazze ladre.