di Paolo Piccirillo
Nutrimenti, 2010
pp. 192
€ 12.00
Carmine è un settantenne che gestisce campetti da calcetto in periferia. Vive in una casa che si affaccia sulla tangenziale Napoli-Aversa e la sua vita si è ridotta a una preghiera quotidiana: ripulire quel tratto di strada dai rifiuti e dalle carcasse di animali investiti e lasciati sull’asfalto. Si ostina a tenerlo pulito perché lì sta la lapide di suo figlio che in quel punto, vent’anni prima, è stato azzannato da un pitbull. Con la sua vita, a un certo punto, si incrocia quella di Salvatore, un albanese che adesso vive in Italia, lavora per un negozio di animali e ha un pitbull sempre mansueto che, però, un giorno ferisce il figlio del macellaio del paese. Ciò scatena una selvaggia vendetta.
Attorno alla loro storia si costruisce un puzzle di vicende che hanno per protagonisti uomini e animali e che parlano di amore estremo e di ineluttabile dolore. Sullo sfondo una desolante provincia casertana con le sue leggi, i codici, la ritualità di una civiltà “bestiale”, che non viene attaccata esplicitamente ma in modo sotterraneo mostrandone i lati più aggressivi, la perenne lotta per l’affermazione. Profondamente umane, invece, le bestie di Piccirillo osservano gli uomini dal basso, come il piccolo gattino che non riuscirà più a sollevarsi dall’asfalto, l’anatra che vive beata tra lo sporco e lo smog della città e il polipo di un acquario che muore nel tentativo di raggiungere il mare. Un esordiente Piccirillo rapisce il lettore nella maglia di un disegno che all’inizio sembra oscuro e sfuggente, ma, andando avanti, si scopre un vortice di storie che sono anche riflessioni e ci si riconosce nello sguardo di un cane o nel volo di un falco che inseguono una – forse – irraggiungibile felicità. È uno straniamento paradossale: la purezza dell’istinto naturale vince se messa a confronto con un triste “zoo umano” del sud Italia.
La vita e la morte sono in dialettica costante, compresenti in tutte le storie piccole e grandi che l’autore racconta, perché un grande scrittore è quello che riesce a “mettere in un racconto la vita e la morte con la stessa intensità”. Una favola oscura dei nostri giorni: l’autore immagina di registrare le impressioni che gli animali avrebbero se si guardassero intorno oggi. Ha infatti dichiarato: “quello che mi interessava era entrare nella percezione visiva ed emotiva di più animali; non limitarmi a quella di uno solo, che sarebbe potuto essere il pitbull, o il cane in generale. Volevo dare varietà al testo, fare un vero e proprio bestiario”. Pur potendolo considerare un bestiario contemporaneo, in Zoo col semaforo non c’è un’unica lezione moraleggiante, bensì la lucida e un po’ sofferta consapevolezza che il senso della vita stia nel continuo cambiamento e nell’idea del passaggio. Anche e soprattutto quello verso la morte, che si intreccia alla vita in modo così stretto.
È quello che, nel racconto “L’acciuga sconosciuta”, succede alla spigola che sta per morire ma per la prima volta, vedendo la luce, può rendersi conto di quanto sia bello quel mondo fuori dal mare che non aveva mai conosciuto. La scrittura è nitida e intima, equilibrata anche quando descrive la sofferenza estrema. Nella sua essenzialità illumina con pochi tratti le psicologie dei personaggi: la storia di Salvatore e la sua infanzia a Durazzo, quando ancora si chiamava Slator e riponeva in un cane tutto l’amore che non riceveva dagli uomini, la solitudine di Carmine che non è riuscito a ricostruire la sua vita dopo una tragedia così grande ma che alla fine del libro è ritratto sulla sfondo di un tramonto in uno squallido campetto di periferia ma, stavolta, in compagnia di un cane. Anche per Slator si apre forse una nuova vita: deve lasciare l’Italia e ritornare a casa, ma non è detto che questo ritorno sia un fallimento: abbandona il desolante scenario di una Caserta dominata dalla camorra e di “una Roma intera, di domenica, senza nulla da fare”. Se volessimo proprio ravvisare una morale in Zoo col semaforo, essa sarebbe che il senso della vita sta nel ricominciare, come il sole che
“torna sempre, ogni giorno, uguale e splendente; sta sempre là e si crede il migliore del mondo perché il Padreterno gli ha fatto questa grazia di non morire mai [….] per questo Carmine invidia il sole: perché sceglie di iniziare e finire ogni giorno”.
Claudia Consoli