TAMARA DE LEMPICKA. La regina del moderno
11 marzo – 10 luglio 2011
Roma, Complesso del Vittoriano
A cura di Gioia Mori
Quando si nominano i ruggenti anni Venti e Trenta del Novecento non si può fare a meno di non pensare a Tamara de Lempicka, ritrattista attenta, che ha saputo farsi portavoce e icona di quel periodo, diventando l’emblema dell’emancipazione femminile e della modernità.
La mostra romana vuole rendere omaggio alla personalità di un’artista trasgressiva, complessa e sfaccettata con una retrospettiva che, a partire dalle sue prime opere, approda a quelle più famose ed emblematiche degli anni ’20 e ’30, fino a quelle meno note e più tradizionali degli anni successivi.
Tamara, di origini polacche, conosce il marito, l'avvocato Tadeusz Łempicki a San Pietroburgo e per sfuggire all’instabile situazione politica russa, i due si trasferiscono a Parigi nel 1920. È qui che la donna riprende gli studi artistici alla Académie de la Grande Chaumiere e alla Académie Ranson coi maestri Maurice Denis, e il cubista André Lothe. Sviluppa uno stile particolare e personale, caratterizzato da immagini ben definite, dai contrasti netti e spigolosi, ma dotate di grande forza espressiva e caratterizzate prevalentemente da una ristretta gamma di colori, in cui il grigio è onnipresente.
Nelle prime opere degli anni ’20 è forte l’influenza tecnica degli artisti cubisti e futuristi, che frequenta a Parigi (il tenero Ritratto di bambina con orso, 1922, in cui raffigura l’amata figlia Kizette, Donna che dorme, 1923) e raffigura spesso soggetti dimessi, personaggi abbandonati, come donne sole, facendo trasparire la personale biografia di “profuga” (come Portrait de Mme P. (Sa tristesse), 1923, che, noto solo grazie ad una fotografia, si pensava fosse perduto, ma è stato ritrovato grazie alle ricerche compiute in occasione di questa esposizione).
Nella prima metà degli anni Venti l’artista inizierà a cambiare radicalmente soggetti, preferendo ai soggetti dimessi, la vita mondana della società borghese e nobile del tempo (Ritratto di Madame Zanetas, 1924, Ritratto del marchese Sommi, 1925, Portrait d’André Gide, 1924-1925 circa, Portrait de S.A.I. le grand-duc Gabriel Constantinovitch, 1926 sono solo un esempio dell’innumerevole produzione artistica di quegli anni). Queste sono senza dubbio le opere più conosciute ed emblematiche della Lempicka, in cui emerge la sua perizia ritrattistica, l’attenzione all’individualità e alla caratterizzazione di ogni personaggio, lo sfarzo proprio di un’epoca, ma al contempo una velata tristezza, una malinconica solitudine individuale. Le opere più belle sono quelle che ritraggono “la bela Rafaëla”, una giovane e intrigante donna amata dall’artista: nudi sensuali, i cui le forme morbide e sinuose della giovane sono contornate da morbidi tocchi di chiaroscuro (La bella Rafaëla, 1927), Rafaëla su fondo verde (il sogno), 1927, La sottoveste rosa, 1927).
Tamara alla fine degli anni ’20, dopo aver divorziato dal marito, si reca a New York, dove si trasferirà stabilmente nel 1939 con il secondo marito, il barone ebreo Raoul Kuffner. Nelle sue opere americane ritorna spesso il tema della vecchiaia e dei rifugiati, ma soprattutto fanno capolino nei suoi quadri i grattacieli, emblema della modernità, forme e colori metallici dalle prevalenti e raffinate sfumature blu-grigio (Nudo con grattacieli, 1930, Sciarpa Blu, 1930, Ritratto di Madame M., 1932).
L’ultima parte della mostra, che malamente vuol confrontare il lavoro dell’artista con alcune opere dei suoi contemporanei polacchi, è dedicata alla fase meno conosciuta e dall’esito meno felice (anche per quanto riguarda l’accoglienza critica) di Tamara, in cui l’artista subisce un “ritorno all’ordine”, fortemente influenzata dalla tradizione rinascimentale italiana e fiamminga, e si dedica a soggetti umili, intimi, nature morte dalle forme meno spigolose e più morbide e sinuose (ad esempio Brocca su una sedia I (Natura morta con uova), 1941).
Le parole di Magdeleine Dayot in un articolo del 1935, riassumono perfettamente a caratteristica dell’arte della Lempicka:
“Questo curioso mélange di estremo modernismo e purezza classica attira e sorprende, e provoca, forse, prima di conquistare completamente, una sorta di lotta cerebrale, dove queste tendenze così diverse lottano una contro l’altra, fino al momento in cui lo sguardo avrà afferrato la grande armonia che regna in queste opposizioni”.
Accompagnano la mostra numerose foto e due filmati d’epoca che ritraggono l’artista come una diva, oltre ad alcune lettere e recensioni.
Elisa Laboranti
Elisa Laboranti