SVILUPPO CAPITALISTICO E UNITÀ NAZIONALE
Un convegno a Roma per parlare di economia, politica e cultura (e delle loro crisi) nei 150 anni dell’Italia unita
di Serena Alessi
Tra le iniziative per festeggiare il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia ce n’è stata una che si è distinta dalle altre per non essere caduta nella facile retorica di molte celebrazioni di questo 2011. Nella splendida Biblioteca della Camera dei Deputati a Roma si è tenuto il 25, 26 e 27 maggio un convegno dal titolo Sviluppo capitalistico e unità nazionale. Le forme economiche, politiche e culturali dell’unità nazionale e della sua crisi, organizzato dall’”Associazione per la storia e le memorie della Repubblica”, dal dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università “La Sapienza”, e patrocinato dall’”Associazione italiana dei costituzionalisti” e dall’ “Associazione italiana per la storia dell’economia politica”.
Tre giorni di dibattiti su economia, politica, società e cultura italiana e sulle loro trasformazioni nei 150 anni di unità: noi di Critica Letteraria abbiamo seguito le ultime due sessioni.
Nel pomeriggio di Giovedì 26 si svolge la parte più prettamente letteraria, dal titolo Scrittori, sviluppo economico e unità nazionale. La discussione incomincia con l’intervento di Antonio Prete, che parla di “scritture morali e cadenze mercantili”. Quella di Prete è una perfetta introduzione, un viaggio tra gli scrittori italiani e le loro diverse contemporaneità: da Leopardi a De Sanctis, fino alla necessità dei “nuovi doveri” che la letteratura ritrova dopo la seconda guerra mondiale, e alle esperienze poetiche di fine Novecento.
“Già Vittorini”, dice Prete, “aveva mostrato come forme del dire e ethos politico potevano essere congiunti”. Oggi “con l’affermarsi di una cultura dell’immagine mediatica e di uno stile mercantile”, continua Prete,
“le forme letterarie ripiegano prevalentemente su una passiva adeguazione ai generi, in un dialogo con l’editoria di consumo, con un romanzesco assimilabile a quello veicolato dalla comunicazione televisiva”.
Sarà forse la poesia, così come già era avvenuto tra le due guerre, a soccorrere la scrittura svuotata del suo ethos politico?
La poesia “è il primo movimento di una resistenza al vortice della cultura mediatica e mercantile che tutto contamina e assorbe e svilisce”.
Difendere la lingua, quindi: ecco l’invito che fa Prete alla fine del suo intervento. Difendere la lingua per resistere e difendere la Costituzione per diventare “un’altra Italia e altri italiani”.
All’excursus introduttivo di Antonio Prete segue quello che forse è stato l’intervento più denso di pathos delle ultime due sessioni. Gianni D’Elia parla del “circo Italia”, alias quello che in Francia chiamano le cirque Burlescon. D’Elia denuncia quella mancanza di verità su cui si è fondato il berlusconismo; parla dei tre delitti formativi della Repubblica, quello di Mattei (delitto economico), quello di Pasolini (delitto culturale) e quello di Moro (delitto politico); cita le parole profetiche di Baudelaire (stupidità, stampa e telegrafo:così il poeta spiegava ai francesi l’ascesa di Napoleone III. “Sostituiamo telegrafo con telefono e avremo la trinità di oggi” commenta D’Elia), di Dante (orgoglio e dismisura sono all’origine della corruzione della città di Firenze) e il Pasolini dell’incompiuto Petrolio. Esaminando la volgare “scienza italiana dell’incoscienza che procede per spettacoli e finzioni”, D’Elia invita a rifiutare quelle “veline” che, in tutti i sensi, ci pongono in continuazione davanti agli occhi. Il suo è un appello pratico alla ribellione, all’azione.
“Qualcosa sta per succedere. Forse partirà dagli studenti, forse dagli Indignados spagnoli, ma non possiamo stare qui a parlare di altri: dobbiamo parlare di noi in prima persona”,
dice con voce appassionata e sollevando non poche polemiche tra i suoi colleghi.
Segue poi la relazione dello scrittore siciliano Vincenzo Consolo, purtroppo assente. Antonio Prete legge le parole di Consolo che sono elogio al suo conterraneo Leonardo Sciascia e riflessione sull’impegno civile dello scrittore di Racalmuto. Dal buio della zolfara alla luce dell’agorà: perchè
“senza lo zolfo lo scrittore Sciascia non si potrebbe spiegare. Spiegare la sua tagliente logica, la sua penetrante capacità di lettura della realtà, della storia, il suo morale, civile bisogno di smontare le tessere della storia proditoriamente o casualmente mal disposte e rimetterle nell'ordine della verità; spiegare la sua indignazione quando un uomo, un potere, un sistema esercita violenza, offesa su un altro uomo, su una minoranza, su una società”.
E poi l’impellenza di affrontare il tema della mafia, la funzione civile dei romanzi polizieschi, l’Affaire Moro: le parole di Consolo attraversano trasversalmente le esperienze civili e letterarie di Sciascia e si concludono affermando che “questo nostro Paese si è fatto sempre più sciasciano”. Il sonno della ragione ci intorpidisce, la “peste mediatica” umilia la nostra dignità. Ed è nel buio di questo momento storico che l’insegnamento di Sciascia deve esser mantenuto sempre vivo.
Dopo Sciascia è il turno di Paolo Volponi, scrittore estremamente ancorato alla sua contemporaneità e che poco prima di morire visse la delusione delle elezioni del ’94. Il critico letterario Massimo Raffaeli nel suo intervento Da Teano a Piazza Fontana. Il sipario ducale di Paolo Volponi parla del pensiero dello scrittore marchigiano che proclama il “dovere di rifiutare una atavica soggezione, di ribellarsi alla normalità della morte civile e pertanto rigettare lo stato di cose presenti”. Raffaeli, che ha curato il volume collettivo Paolo Volponi. Il coraggio dell’utopia (Transeuropea, 1997), segno della dedizione per quello che secondo lui è “insieme a Fenoglio il più grande scrittore di romanzi della seconda metà del Novecento”, legge alcuni passi da Il sipario ducale (Garzanti, 1975), romanzo che si svolge subito dopo la strage di Piazza Fontana a Milano, e da altri scritti di Volponi, tra cui queste intense parole:
“Il nostro è un Paese sgangherato, ma non è morto. E anche nella cultura, nella letteratura, perché non siamo tutto e soltanto televisione, tutto e soltanto plastica. C’è ancora molto che freme, frigge, farnetica”.
L’ultimo intervento del pomeriggio è quello della femminista Biancamaria Frabotta, dal titolo provocatorio Degrado di un simbolo: dalla patriota alla escort. O meglio dalla escort alla patriota, poichè il suo discorso è cominciato con la definizione di escort, appunto “scorta”, e con l’amara constatazione che della poesia di Giulietta Masina delle felliniane (e pasoliniane) notti di Cabiria non c’è proprio nulla: la escort che scambia il sesso con un posto di lavoro o con la condivisione del potere non fa né arte né storia. Poi la Frabotta, tra una citazione di Mary Wollstonecraft e una di Simone De Beauvoir, disegna un trittico di donne-simbolo dei nostri 150 anni di unità. Cristina di Belgiojoso, la patriota dalla vita avventurosa, e le due Amelia Rosselli: la prima l’Amelia Pincherle madre dei fratelli antifascisti assassinati in Francia, la seconda, sua nipote, la celebre poetessa italiana morta suicida nel 1996. È con i versi della seconda Amelia Rosselli che si conclude l’intervento della Frabotta,versi che
“ci faranno scorta in questa amara solitudine di italiane senza Italia”.
FINE PRIMA PARTE
Social Network