Il presente della poesia
Niva Lorenzini
Il Mulino, Bologna, 1991
pp. 253
Niva Lorenzini è docente ordinario di letteratura italiana all’università di Bologna, studiosa di rango, da sempre attenta alla poesia novecentesca così come al dibattito critico sviluppatosi attorno a essa. Lo dimostra, tra gli altri suoi lavori, Il presente della poesia: l’opera offre una panoramica della poesia italiana dagli anni ’60 alla fine degli anni ’80, a ridosso della pubblicazione del volume stesso, esattamente un ventennio fa (1991). Anche se il titolo ovviamente non risponde più al suo contenuto, la poesia che l’autrice ripercorre e ottimamente contestualizza è quella del nostro recente passato, la cui comprensione è indispensabile per inquadrare la produzione dei contemporanei, della letteratura dell’ultimo decennio.
Si tratta, chiariamolo subito, di un lavoro “accademico” (difficile ridare a questa parola il lustro che le spetta, essendo usata oggi, tutt’al più, in senso dispregiativo): niente impressionismi o interpretazioni di testi a uso e consumo del lettore, nessun cedimento al discorso astorico sulla poesia né all’empirismo analitico, al formalismo privato del suo contesto.
Non ci si aspetti dunque le letture personali e partecipate che spesso i critici-poeti fanno di poeti a loro affini, né la verve polemica e la parzialità di un critico militante: l’obiettivo è quello di un bilancio che metta in risalto la varietà delle forme e dei temi, inquadrandola però in solide griglie ermeneutiche e in una forte consapevolezza storica. La sua militanza semmai, se di militanza è lecito parlare, non sta nell’esplicita adesione a un canone piuttosto che a un altro, ma nel rivendicare (e nel fare uso di) una critica aperta, pluridisciplinare – al passo con i mutamenti sociali sempre più rapidi, con la complessità dell’esistente – e al tempo stesso responsabile e necessaria, in netto contrasto con le derive del decostruzionismo e della rinuncia alla scelta, esigenza percepita acutamente per via dell’allora imperante (anche se già in declino) postmodernismo.
Quello che ci offre la studiosa è, in breve, un percorso di lettura che coglie il rapporto tra esperienze poetiche e contesto extra-poetico (incluso, appunto, il dibattito sulla poesia, la relazione poeti-società), e che mira a una sintesi rigorosa ma inevitabilmente parziale del trentennio poetico considerato. Selezionare, d’altronde, è dovere della critica: le ambizioni enciclopediche fiaccherebbero il valore stesso della scelta, e porterebbero inoltre a una mancanza di fruibilità sia per il lettore appassionato, sia per lo studioso di letteratura.
Veniamo ora più concretamente alla struttura e ai temi dell’opera: cinque macro-capitoli, ciascuno dei quali costituito di sottosezioni (da 4 a 11) dell’ampiezza di un articolo o un breve saggio.
Il primo capitolo si sofferma su alcune categorie interpretative utili a tracciare un primo abbozzo del trentennio: complessità, perdita delle ipotesi totalizzanti, il dilemma nesso-casualità, mare dell’oggettività e perdita dell’io, solo per citarne alcune.
I due capitoli seguenti affrontano gli anni Sessanta, rilevandone anzitutto il fermento teorico, il proliferare di riviste e sedi di discussione: Calvino, Vittorini, Pasolini, Fortini, Sereni sono alcuni dei grandi nomi che emergono a tal proposito, immessi con agilità in un discorso articolato ma vivo, agile e mai pedante, quasi affabile – sia pur nel rispetto del taglio accademico del volume.
Si ripercorrono le discussioni sull’io e sul valore dell’esperienza, dalla sovversione della neoavanguardia agli sberleffi del Montale di Satura, con un’acuta percezione delle operazioni formali, dal verso atonale, recitativo e drammatico di Sanguineti, alle strutture chiuse ma internamente dissacrate di Balestrini e Giuliani, alla spoglia pronuncia di Montale e Sereni.
La crisi della rappresentazione, la distanza tra parola e cosa, è un utile paradigma per comprendere la poesia di quel decennio. In modi diversi, contro la dispersione del soggetto e l’indicibilità della cosa si pongono Pasolini e Fortini, dei quali vengono sintetizzate le strategie poetiche e politiche.
Capitoletti a parte sono dedicati a tre grandi poeti nati nel primo decennio del novecento (Sereni, Luzi e Caproni) e, forse discutibilmente, ad Antonio Porta (al quale è, tra l’altro, dedicato il volume), non foss’altro perché più giovane e meno unanimemente riconosciuto dalla critica: di questo poeta si rimarca il vitalismo biologico, che si produce in un espressionismo talvolta violento. Questa, insieme alla generale preferenza per il versante antilirico e oggettuale su quello orfico-mistico, mi sembra l’unica concessione alla militanza poetica dell’autrice, visibile in filigrana dallo spazio riservato agli autori: basti pensare che solo poche righe sono riservate a Valduga e – secondo me giustamente – ad Alda Merini.
Comunque sia, tornando al terzo capitolo, un altro capitoletto è destinato alla triade Risi-Orelli-Erba, interpreti di una linea lombarda improntata all’attenzione alle cose, a una pronuncia nitida venata d’ironia. Altrettanto lombardi, ma diversi – più tesi alla narrazione dilatata – Raboni, Giudici, Pagliarani, Rossi, solo per citarne alcuni. Chiudono le due grandi figure isolate di Amelia Rosselli e Andrea Zanzotto, nei loro oltranzismi linguistici di esiti e origini diverse, ma entrambi di folgorante impatto.
Il quarto capitolo, dedicato alla poesia degli anni Settanta, mette in risalto la caduta delle ideologie e delle teorizzazioni del decennio precedente, il declino dello strutturalismo, la preferenza per una poesia recitata e immediata, il ritorno del canto, addirittura del mito (si accenna a Conte e all’antologia La parola innamorata), il decentramento dell’io, l’influenza della Beat generation.
In questo decennio
Il ritorno, nel testo, degli stessi poeti, è insito nell’impossibilità di affrontare il discorso per compartimenti stagni, pena il venir meno del senso temporale e dinamico che invece si vuole indagare.
Con gli anni Ottanta prende corpo una nuova progettualità, in parte anche coincidente con la rinascita delle forme chiuse; ma anche il contrapporsi di due correnti fatte passare sotto i nomi di «neoromanticismo» e «neocontenutismo fenomenico», benché la stessa studiosa ci metta in guardia dal valore assoluto di queste etichette. La scollatura tra nome e cosa genera il ricorso all’allegoria in Giampiero Neri, così come in Fortini. Sull’altro versante, quello neo-orfico, brevi cenni sono dedicati a Carifi e Mussapi, e spazio appena più ampio a De Angelis. Sotto il capitoletto Geometria verbale e manierismo sono invece raggruppati Magrelli, Greppi e Valduga, mentre di nonsense si può parlare per Majorino e Scialoja, senza dimenticare l’esperienza appartata di Scalise. Il volume si chiude con un’ulteriore riflessione sul rapporto tra tempo storico e poesia, constatando e rilanciando il ritorno di una critica responsabile (ad esempio, il richiamo etico del Todorov di Critique de la critique) dopo «la resa al contingente, al provvisorio, all’irriflesso» (p. 219) del postmodernismo. Suggellano il volume ricchi riferimenti bibliografici (datati ma lo stesso non prescindibili) e utili schede degli autori.
Un’ultima riflessione, questa volta personale, sul rapporto opera-target nel caso di volumi come questo, rivolti in primis a studiosi o appassionati (il grande numero di poeti passati in rassegna, di teorie critiche e filosofie del testo citate potrebbe scoraggiare il lettore disarmato): io credo che opere del genere farebbero bene a molti versificatori improvvisati e inneggianti a un’immediatezza naif che è solo illusione (la situazione di oggi mi sembra quindi, in parte, coincidere con quella degli anni ’70, a esclusione ovviamente dell’élite delle riviste serie, ignote al grande pubblico); ma nondimeno credo che andrebbero proposte già nella formazione scolastica superiore – certo con l’ausilio dell’insegnante a guida non dogmatica –, per avvicinare gli studenti a una poesia che è viva nel suo farsi, non solo museo che si ferma, nel migliore dei casi, a Montale; poi le poesie riportate, spesso per intero, dalla studiosa, sono quasi sempre di tale bellezza e intensità che sarebbe possibile scoprire (o riscoprire) i poeti proprio partendo da quelle, affidandosi poi al proprio gusto personale e affilandolo con ulteriori letture, unendo il piacere di una propria personale scoperta – quindi anche accidentata, disorganica – alle linee guida interpretative già impostate, per non smarrire il senso diacronico del tempo e quello sincronico del presente.
Davide Castiglione
Niva Lorenzini
Il Mulino, Bologna, 1991
pp. 253
Niva Lorenzini è docente ordinario di letteratura italiana all’università di Bologna, studiosa di rango, da sempre attenta alla poesia novecentesca così come al dibattito critico sviluppatosi attorno a essa. Lo dimostra, tra gli altri suoi lavori, Il presente della poesia: l’opera offre una panoramica della poesia italiana dagli anni ’60 alla fine degli anni ’80, a ridosso della pubblicazione del volume stesso, esattamente un ventennio fa (1991). Anche se il titolo ovviamente non risponde più al suo contenuto, la poesia che l’autrice ripercorre e ottimamente contestualizza è quella del nostro recente passato, la cui comprensione è indispensabile per inquadrare la produzione dei contemporanei, della letteratura dell’ultimo decennio.
Si tratta, chiariamolo subito, di un lavoro “accademico” (difficile ridare a questa parola il lustro che le spetta, essendo usata oggi, tutt’al più, in senso dispregiativo): niente impressionismi o interpretazioni di testi a uso e consumo del lettore, nessun cedimento al discorso astorico sulla poesia né all’empirismo analitico, al formalismo privato del suo contesto.
Non ci si aspetti dunque le letture personali e partecipate che spesso i critici-poeti fanno di poeti a loro affini, né la verve polemica e la parzialità di un critico militante: l’obiettivo è quello di un bilancio che metta in risalto la varietà delle forme e dei temi, inquadrandola però in solide griglie ermeneutiche e in una forte consapevolezza storica. La sua militanza semmai, se di militanza è lecito parlare, non sta nell’esplicita adesione a un canone piuttosto che a un altro, ma nel rivendicare (e nel fare uso di) una critica aperta, pluridisciplinare – al passo con i mutamenti sociali sempre più rapidi, con la complessità dell’esistente – e al tempo stesso responsabile e necessaria, in netto contrasto con le derive del decostruzionismo e della rinuncia alla scelta, esigenza percepita acutamente per via dell’allora imperante (anche se già in declino) postmodernismo.
Quello che ci offre la studiosa è, in breve, un percorso di lettura che coglie il rapporto tra esperienze poetiche e contesto extra-poetico (incluso, appunto, il dibattito sulla poesia, la relazione poeti-società), e che mira a una sintesi rigorosa ma inevitabilmente parziale del trentennio poetico considerato. Selezionare, d’altronde, è dovere della critica: le ambizioni enciclopediche fiaccherebbero il valore stesso della scelta, e porterebbero inoltre a una mancanza di fruibilità sia per il lettore appassionato, sia per lo studioso di letteratura.
Veniamo ora più concretamente alla struttura e ai temi dell’opera: cinque macro-capitoli, ciascuno dei quali costituito di sottosezioni (da 4 a 11) dell’ampiezza di un articolo o un breve saggio.
Il primo capitolo si sofferma su alcune categorie interpretative utili a tracciare un primo abbozzo del trentennio: complessità, perdita delle ipotesi totalizzanti, il dilemma nesso-casualità, mare dell’oggettività e perdita dell’io, solo per citarne alcune.
Si ripercorrono le discussioni sull’io e sul valore dell’esperienza, dalla sovversione della neoavanguardia agli sberleffi del Montale di Satura, con un’acuta percezione delle operazioni formali, dal verso atonale, recitativo e drammatico di Sanguineti, alle strutture chiuse ma internamente dissacrate di Balestrini e Giuliani, alla spoglia pronuncia di Montale e Sereni.
La crisi della rappresentazione, la distanza tra parola e cosa, è un utile paradigma per comprendere la poesia di quel decennio. In modi diversi, contro la dispersione del soggetto e l’indicibilità della cosa si pongono Pasolini e Fortini, dei quali vengono sintetizzate le strategie poetiche e politiche.
Comunque sia, tornando al terzo capitolo, un altro capitoletto è destinato alla triade Risi-Orelli-Erba, interpreti di una linea lombarda improntata all’attenzione alle cose, a una pronuncia nitida venata d’ironia. Altrettanto lombardi, ma diversi – più tesi alla narrazione dilatata – Raboni, Giudici, Pagliarani, Rossi, solo per citarne alcuni. Chiudono le due grandi figure isolate di Amelia Rosselli e Andrea Zanzotto, nei loro oltranzismi linguistici di esiti e origini diverse, ma entrambi di folgorante impatto.
Il quarto capitolo, dedicato alla poesia degli anni Settanta, mette in risalto la caduta delle ideologie e delle teorizzazioni del decennio precedente, il declino dello strutturalismo, la preferenza per una poesia recitata e immediata, il ritorno del canto, addirittura del mito (si accenna a Conte e all’antologia La parola innamorata), il decentramento dell’io, l’influenza della Beat generation.
In questo decennio
Se questa è la temperie dell’epoca, Niva Lorenzini non distoglie mai lo sguardo dalle esperienze poetiche più consistenti: ecco ancora Montale, con la sua demitizzazione (che è anche resistenza) poetica, o Bertolucci, col suo diarismo antilirico, per passare ai più giovani Cucchi e Viviani, dagli elenchi oggettuali del primo ai micro-racconti del secondo, ritornando anche su Porta, Sanguineti e Giudici, al quale viene dato ampio spazio (pp. 157-164), complice l’inserimento di un saggio scritto in precedenza.«ci si illude di poter riconquistare un grado zero, una condizione naïve di contatto aurorale col mondo, quando si è comunque compromessi, condizionati anzitutto da un bagaglio di patentate teorie (da Nietzsche a Bataille…)» (p. 139).
Il ritorno, nel testo, degli stessi poeti, è insito nell’impossibilità di affrontare il discorso per compartimenti stagni, pena il venir meno del senso temporale e dinamico che invece si vuole indagare.
Con gli anni Ottanta prende corpo una nuova progettualità, in parte anche coincidente con la rinascita delle forme chiuse; ma anche il contrapporsi di due correnti fatte passare sotto i nomi di «neoromanticismo» e «neocontenutismo fenomenico», benché la stessa studiosa ci metta in guardia dal valore assoluto di queste etichette. La scollatura tra nome e cosa genera il ricorso all’allegoria in Giampiero Neri, così come in Fortini. Sull’altro versante, quello neo-orfico, brevi cenni sono dedicati a Carifi e Mussapi, e spazio appena più ampio a De Angelis. Sotto il capitoletto Geometria verbale e manierismo sono invece raggruppati Magrelli, Greppi e Valduga, mentre di nonsense si può parlare per Majorino e Scialoja, senza dimenticare l’esperienza appartata di Scalise. Il volume si chiude con un’ulteriore riflessione sul rapporto tra tempo storico e poesia, constatando e rilanciando il ritorno di una critica responsabile (ad esempio, il richiamo etico del Todorov di Critique de la critique) dopo «la resa al contingente, al provvisorio, all’irriflesso» (p. 219) del postmodernismo. Suggellano il volume ricchi riferimenti bibliografici (datati ma lo stesso non prescindibili) e utili schede degli autori.
Un’ultima riflessione, questa volta personale, sul rapporto opera-target nel caso di volumi come questo, rivolti in primis a studiosi o appassionati (il grande numero di poeti passati in rassegna, di teorie critiche e filosofie del testo citate potrebbe scoraggiare il lettore disarmato): io credo che opere del genere farebbero bene a molti versificatori improvvisati e inneggianti a un’immediatezza naif che è solo illusione (la situazione di oggi mi sembra quindi, in parte, coincidere con quella degli anni ’70, a esclusione ovviamente dell’élite delle riviste serie, ignote al grande pubblico); ma nondimeno credo che andrebbero proposte già nella formazione scolastica superiore – certo con l’ausilio dell’insegnante a guida non dogmatica –, per avvicinare gli studenti a una poesia che è viva nel suo farsi, non solo museo che si ferma, nel migliore dei casi, a Montale; poi le poesie riportate, spesso per intero, dalla studiosa, sono quasi sempre di tale bellezza e intensità che sarebbe possibile scoprire (o riscoprire) i poeti proprio partendo da quelle, affidandosi poi al proprio gusto personale e affilandolo con ulteriori letture, unendo il piacere di una propria personale scoperta – quindi anche accidentata, disorganica – alle linee guida interpretative già impostate, per non smarrire il senso diacronico del tempo e quello sincronico del presente.
Davide Castiglione