L'idiota
di Fëdor Michajlole Dostoevskij
Einaudi
1^ edizione 1868-69
Traduzione di Alfedro Polledro, 1941
€14
pp.606
Siamo sul finire del 1867, il grande scrittore russo Fëdor Dostoevskij si ritrova in una difficile situazione: ad inizio anno aveva accettato un congruo anticipo (4500 rubli) per la pubblicazione di un romanzo che stentava ancora a voler vedere la luce. Sotto una forte preoccupazione economica, sua sgradevole peculiarità rispetto agli altri grandi romanzieri connazionali, inizia a lavorare ad un ritmo folle e frenetico, terminando tutta la prima parte della sua nuova opera in poco più di un mese. Ammette di aver giocato d'azzardo:
Il risultato è L'idiota, un immenso agglomerato di materiale narrativo, sotto cui qualunque scrittore di romanzi sarebbe rimasto schiacciato, producendo un'opera esauribile in uno spaziotempo limitato (V. Strada, Il "santo idioto" e il "savio peccatore"). La trama è, di per sè, semplice: un uomo (Myškin) combattuto e conteso tra e da due donne; a corollario di ciò una sua Nemesi (Rogozin) ed una sua declinazione normalizzata (Gavrila), un nugolo di losche tipologie umane. Parlasi di declinazione normalizzata in quanto Gavrila non è altro che l'esito, nella lingua di un mondo grigio, dell'eccezionale Myškin: il principe Myškin, ultimo rampollo di una nobile famiglia decaduta, che, dopo un lungo periodo di cura per l'epilessia nella verdeggiante Svizzera del dottor Schneider, ritorna a San Pietroburgo cercando rifugio in casa di una sua lontana parente, moglie del generale Epancin. E' il principe l'uomo totalmente bello di cui Dostoevskij parlava a Majkov. E' il principe l'idiota. "Idiota" (Idiot in russo) è termine dai natali classici, ellenici. Non ha sfumature negative: indica il privato cittadino, esautorato in epoca ellenistica da qualsiasi funzione pubblica e politica. L'evoluzione dovuta all'uso gli ha donato il sapore del nostro ingenuo, inesperto; definizione a cui si prestano facilmente i nomi di chi è sempre in casa e non ha possibilità (volontà?) di vedere il mondo (cfr. in latino il sostantivo-aggettivo ingenuus, l'uomo libero cresciuto all'ombra della gens). L'idiota è una persona che arrossisce. Questo è il significato a cui allude Dostoevskij, l'indizio che preannuncia la bellezza. L'uomo totalmente bello, il nuovo Cristo, è un foglio di carta bianco, che sincretizza nel suo splendore tutta la gamma dei colori; su di esso, però, non è scritto niente. La tacita dottrina che ne deriva non vuol fare proselitismo e si carica dei toni lievi e accomodanti della parola detta ingenuamente, senza pensarci troppo su. E ciò assurge a valori sacrali, santi, religiosi; fatti, però, della stessa consistenza delle leggende, delle voci popolari. Una concezione che di conseguenza diviene anche qualcosa di risibile (Cristo non venne parimenti sbeffeggiato al suo processo?). Come evidenzia la variazione, epesegesi di tutto il romanzo, sul cavaliere povero di una poesia di Puškin (Romanza, 1835):
Questo estratto rivela, in aggiunta, l'attenzione dell'autore a spiegare e riprendere i passaggi che gli premono esser intesi (direttamente od indirettamente), in un piacevole ma celato gioco di divergenze e concordanze d'opinione con le sue creature (ad es. sull'utilizzo ambiguo della parola idiota): la sua ombra si sposta di continuo.
In tecnica narrativa Dostoevskij eccelle: l'intero romanzo si presenta come una serie di volute, di spirali vorticose che si inanellano una sull'altra, per lo più in forma di moduli prosastici, grandi conglomerati dialogici e vicende corali. La dinamica dominante pare essere quella di un palloncino: lento riempirsi d'aria, rapido sgonfiamento. Un sistema pronto ad essere riutilizzato (rigonfiato?) ciclicamente ed in eterno, se non fosse per quelle piccole perdite, quelle morti che non ne consentono la ripetizione pedissequa.
Per le innumerevoli tematiche toccate, come già accennato, l'opera è senza dubbio policentrica: ciò si traduce in una flessibile struttura simmetrica, non immediatamente percepibile senza l'aiuto di una visione d'insieme (cfr.: il forte parallelismo tra i cadaveri del Cristo dipinto da Hans Holbein il giovane nella prima parte e, nell'ultima, quello di Nastasja Filippovna, motore di gran parte delle vicende narrate). Simmetria a tratti messa in risalto da forti contrasti di tinte: meraviglioso, a tal scopo, il repentino mutare del pianto in riso.
Infine, a tutti sarà scappato di citare 'la bellezza salverà il mondo', più o meno sguaiatamente e con intenti pseudoculturali. Questa frase è indiretta entrambe le volte che compare, attribuita dall'infelice Ippolìt al principe e come rimprovero della giovane Aglaja:
E' sbagliato attribuire direttamente a Dostoevskij questa citazione, tanto dissimulata in un gioco di specchi, e decontestualizzarla e ridurla ad artificio di cui riempirsi la bocca. Fëdor si è divertito a scrivere, ad immaginare un personaggio che la pensasse così; scrivere, in fondo, non è altro che giocare ad essere dio, non si può rispondere direttamente delle azioni del proprio creato. E Dostoevskij sembra saperlo benissimo, dal momento che non gli appartiene il mediocre saper immaginare solo mondi perfetti. La sua maestria risiede nel rappresentare una grande varietà di tipologie umane, dall'idiota alle ammattite, dall'isterica ad uno stuolo di mentecatti. In fin dei conti, nel libro, si tratta di ordinari paradossi, senza troppi fronzoli fantastici e divagazioni frutto di un dio che non sia umano: una storia di follie tanto paradossale quanto realistica. Una narrazione intensa ed abbacinante, elucubrata, mossa da un vivo interesse antropologico e sociale; da leggere, rileggere e masticare più volte per metabolizzare attenzioni, riguardi e particolari dalla non immediata riconoscibilità. Per tutto il resto (spoiler, aneddotica ed infantilità) c'è Wikipedia.
di Fëdor Michajlole Dostoevskij
Einaudi
1^ edizione 1868-69
Traduzione di Alfedro Polledro, 1941
€14
pp.606
Da tempo ormai mi tormentava un'idea, ma avevo paura di farne un romanzo, perché è un'idea troppo difficile e ad essa non sono preparato, anche se è estremamente seducente e la amo. Quest'idea è raffigurare un uomo totalmente bello.(da una lettera a Majkov, 12.01.1868)
Siamo sul finire del 1867, il grande scrittore russo Fëdor Dostoevskij si ritrova in una difficile situazione: ad inizio anno aveva accettato un congruo anticipo (4500 rubli) per la pubblicazione di un romanzo che stentava ancora a voler vedere la luce. Sotto una forte preoccupazione economica, sua sgradevole peculiarità rispetto agli altri grandi romanzieri connazionali, inizia a lavorare ad un ritmo folle e frenetico, terminando tutta la prima parte della sua nuova opera in poco più di un mese. Ammette di aver giocato d'azzardo:
(continua da sopra) Niente, secondo me, può essere più difficile di questo, al giorno d'oggi soprattutto. Lei, naturalmente, ne converrà in pieno. Questa idea anche prima balenava in una qualche immagine artistica, ma soltanto in una qualche mentre l'immagine deve essere piena. Soltanto la situazione disperata mi ha costretto a prendere questa idea immatura. Ho rischiato come alla roulette: "Chissà che scrivendo non si sviluppi!". E' imperdonabile.( ibidem )
Il risultato è L'idiota, un immenso agglomerato di materiale narrativo, sotto cui qualunque scrittore di romanzi sarebbe rimasto schiacciato, producendo un'opera esauribile in uno spaziotempo limitato (V. Strada, Il "santo idioto" e il "savio peccatore"). La trama è, di per sè, semplice: un uomo (Myškin) combattuto e conteso tra e da due donne; a corollario di ciò una sua Nemesi (Rogozin) ed una sua declinazione normalizzata (Gavrila), un nugolo di losche tipologie umane. Parlasi di declinazione normalizzata in quanto Gavrila non è altro che l'esito, nella lingua di un mondo grigio, dell'eccezionale Myškin: il principe Myškin, ultimo rampollo di una nobile famiglia decaduta, che, dopo un lungo periodo di cura per l'epilessia nella verdeggiante Svizzera del dottor Schneider, ritorna a San Pietroburgo cercando rifugio in casa di una sua lontana parente, moglie del generale Epancin. E' il principe l'uomo totalmente bello di cui Dostoevskij parlava a Majkov. E' il principe l'idiota. "Idiota" (Idiot in russo) è termine dai natali classici, ellenici. Non ha sfumature negative: indica il privato cittadino, esautorato in epoca ellenistica da qualsiasi funzione pubblica e politica. L'evoluzione dovuta all'uso gli ha donato il sapore del nostro ingenuo, inesperto; definizione a cui si prestano facilmente i nomi di chi è sempre in casa e non ha possibilità (volontà?) di vedere il mondo (cfr. in latino il sostantivo-aggettivo ingenuus, l'uomo libero cresciuto all'ombra della gens). L'idiota è una persona che arrossisce. Questo è il significato a cui allude Dostoevskij, l'indizio che preannuncia la bellezza. L'uomo totalmente bello, il nuovo Cristo, è un foglio di carta bianco, che sincretizza nel suo splendore tutta la gamma dei colori; su di esso, però, non è scritto niente. La tacita dottrina che ne deriva non vuol fare proselitismo e si carica dei toni lievi e accomodanti della parola detta ingenuamente, senza pensarci troppo su. E ciò assurge a valori sacrali, santi, religiosi; fatti, però, della stessa consistenza delle leggende, delle voci popolari. Una concezione che di conseguenza diviene anche qualcosa di risibile (Cristo non venne parimenti sbeffeggiato al suo processo?). Come evidenzia la variazione, epesegesi di tutto il romanzo, sul cavaliere povero di una poesia di Puškin (Romanza, 1835):
[Aglaja] – Comunque sia, è chiaro che a quel "cavaliere povero" era ormai del tutto indifferente chi fosse e che cosa facesse la sua dama. Gli bastava averla scelta e aver creduto alla sua "pura bellezza" per adorarla in eterno; il merito era appunto questo: che fosse poi diventata anche una ladra, egli doveva continuare ad averfede in lei ed a spezzar lance per la sua pura bellezza. Il poeta sembra aver voluto incarnare in una figura eccezionale tutta l'immensa idea dell'amor platonico e cavalleresco medievale di un puro e nobile cavaliere: tutto ciò, s'intende. è un ideale. [...] Il "cavaliere povero" è Don Chisciotte, ma un Don Chisciotte serio, e non comico. Sulle prime io non capivo e ne ridevo, ora invece amo il "cavaliere povero" e, soprattutto, ammiro le sue gesta.
Così terminò Aglaja e, a guardarla, non era facile capire se parlasse sul serio o celiasse.
– Ebbene, con tutte le sue gesta era uno sciocco qualunque! – sentenziò la generalessa.
Questo estratto rivela, in aggiunta, l'attenzione dell'autore a spiegare e riprendere i passaggi che gli premono esser intesi (direttamente od indirettamente), in un piacevole ma celato gioco di divergenze e concordanze d'opinione con le sue creature (ad es. sull'utilizzo ambiguo della parola idiota): la sua ombra si sposta di continuo.
In tecnica narrativa Dostoevskij eccelle: l'intero romanzo si presenta come una serie di volute, di spirali vorticose che si inanellano una sull'altra, per lo più in forma di moduli prosastici, grandi conglomerati dialogici e vicende corali. La dinamica dominante pare essere quella di un palloncino: lento riempirsi d'aria, rapido sgonfiamento. Un sistema pronto ad essere riutilizzato (rigonfiato?) ciclicamente ed in eterno, se non fosse per quelle piccole perdite, quelle morti che non ne consentono la ripetizione pedissequa.
Per le innumerevoli tematiche toccate, come già accennato, l'opera è senza dubbio policentrica: ciò si traduce in una flessibile struttura simmetrica, non immediatamente percepibile senza l'aiuto di una visione d'insieme (cfr.: il forte parallelismo tra i cadaveri del Cristo dipinto da Hans Holbein il giovane nella prima parte e, nell'ultima, quello di Nastasja Filippovna, motore di gran parte delle vicende narrate). Simmetria a tratti messa in risalto da forti contrasti di tinte: meraviglioso, a tal scopo, il repentino mutare del pianto in riso.
Infine, a tutti sarà scappato di citare 'la bellezza salverà il mondo', più o meno sguaiatamente e con intenti pseudoculturali. Questa frase è indiretta entrambe le volte che compare, attribuita dall'infelice Ippolìt al principe e come rimprovero della giovane Aglaja:
– È vero, principe, che lei una volta ha detto che la 'bellezza' salverà il mondo? State a sentire, signori, – esclamò con voce stentorea [Ippolìt], rivolgendosi a tutti, – il principe sostiene che il mondo sarà salvato dalla bellezza! E io sostengo che questi pensieri gioiosi gli vengono in testa perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato.[...]
Sentite, una volta per sempre, – disse infine Aglaja, perdendo la pazienza, – se vi metterete a parlare di qualche cosa come la pena di morte, o delle condizioni economiche della Russia o a dire che "la bellezza salverà il mondo", io... certo me la godrò e riderò di gusto, ma... ve ne avverto fin d'ora: non mi venite più davanti agli occhi! Sentite: parlo sul serio! Questa volta parlo proprio sul serio.
E' sbagliato attribuire direttamente a Dostoevskij questa citazione, tanto dissimulata in un gioco di specchi, e decontestualizzarla e ridurla ad artificio di cui riempirsi la bocca. Fëdor si è divertito a scrivere, ad immaginare un personaggio che la pensasse così; scrivere, in fondo, non è altro che giocare ad essere dio, non si può rispondere direttamente delle azioni del proprio creato. E Dostoevskij sembra saperlo benissimo, dal momento che non gli appartiene il mediocre saper immaginare solo mondi perfetti. La sua maestria risiede nel rappresentare una grande varietà di tipologie umane, dall'idiota alle ammattite, dall'isterica ad uno stuolo di mentecatti. In fin dei conti, nel libro, si tratta di ordinari paradossi, senza troppi fronzoli fantastici e divagazioni frutto di un dio che non sia umano: una storia di follie tanto paradossale quanto realistica. Una narrazione intensa ed abbacinante, elucubrata, mossa da un vivo interesse antropologico e sociale; da leggere, rileggere e masticare più volte per metabolizzare attenzioni, riguardi e particolari dalla non immediata riconoscibilità. Per tutto il resto (spoiler, aneddotica ed infantilità) c'è Wikipedia.
Adriano Morea
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