La parola contro "lo sfacelo senza fine nè forma": le Città invisibili di Italo Calvino


Le città invisibili
di Italo Calvino
Einaudi, 1972


Immaginiamo un vasto impero senza tempo. Immaginiamo che esso sia ormai nient’altro che uno “sfacelo senza fine né forma” e che due personaggi parlino per sfuggire al caos. Un Marco Polo visionario e un Kublai Kan malinconico si incontrano tutte le sere nelle terrazze e nel sontuoso giardino del palazzo e lì dialogano in una dimensione senza tempo e forse, perché no, anche senza spazio (“Forse questo giardino esiste solo all’ombra delle nostre palpebre abbassate”). Come Sherazade, ne “Le mille e una notte”, Marco racconta per vivere e per fare vivere il sovrano triste. Ma soprattutto racconta per dare una forma al mondo.
Dai tesori dell’oriente favoloso de “Il Milione” al sovraffollamento delle megalopoli contemporanee che si estendono a coprire il pianeta, lo sguardo di Marco si posa su cinquantacinque città. Esse sono “invisibili”. Immaginate? Sognate? Fittizie? Nascoste? Tutto questo e altro ancora. Sorgono in un “continente dell’altrove”, il viaggiatore vi si muove instancabile e, pur nella loro molteplicità, sembrano costituire un’unica grande città. L’impero di Kublai è plurale, cangiante, pare mutare di continuo sotto la spinta di uno spirito combinatorio che tutto scompone e ricompone. Alla ricerca di un senso.
I racconti di Marco sono i luoghi dell’affabulazione pura: il lettore è trasportato ad Adelma, città dei morti in cui in ogni viso somiglia a quello di una persona che ci ha lasciato, oppure a Ersilia in cui gli abitanti tendono dei fili tra gli spigoli delle case, a Zemrude che prende forma a seconda del tuo umore o ancora ad Eufemia, città in cui “i mercanti di sette nazioni convengono a ogni solstizio ed equinozio” per scambiarsi le storie e la memoria. Il tutto all’insegna dello straniamento geografico e storico. Nelle città descritte sarebbe vano cercare i tratti di città esistenti, eppure – lo ha ammesso Calvino stesso - nel libro è condotto un discorso ora esplicito ora implicito sulla città moderna, proprio nel momento in cui essa è entrata in crisi e ha mutato forma: gli anni ’70.
Ma “Le città invisibili” sono molto di più di un “libro delle meraviglie” che trasporta il lettore in posti lontani. Dietro la leggerezza della spinta immaginativa e favolosa sta un denso contenuto morale: la ricerca di un significato, di quel rapporto che lega gli uomini tra loro e gli uomini e le città. Prima di tutto esse sono luoghi di scambi di parole, desideri, ricordi.
L’autore l’ha definito un “ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città”.
Ma dentro le descrizioni di Marco Polo si annidano tutte le riflessioni e gli umori calviniani degli anni ’60 e ’70: il desiderio, la memoria, la fiaba, l’utopia, i contatti con le nuove discipline francesi come semiotica, strutturalismo, linguistica strutturale.
È un Calvino lettore onnivoro quello che compone “Le città”, vi getta dentro materiale accumulato da anni, catalogato, ordinato, disposto a formare un sistema. Restituisce l’idea di un mondo come “sistema dei sistemi”in cui il tempo è divenuto plurimo.
Raccolta di racconti, apologo, onirigramma, romanzo senza intreccio, libro di viaggio, di fantasia, conte philosophique… è impossibile definire univocamente il genere dell’opera. Di sicuro è un libro nell’accezione che a tale termine dava Calvino: “un qualcosa con un principio e una fine, uno spazio in cui il lettore deve entrare, girare, magari perdersi, ma a un certo punto trovare un’uscita, magari parecchie uscite”. È esattamente quello che succede in questo libro poliedrico che di uscite ne ha tante, disseminante un po’ ovunque. Come i sensi che vi si affollano e si sovrappongono l’un l’altro facendone una delle opere più costruite e insieme più evanescenti di Calvino.
È per questo che non ha senso cercare di fissarla in forma definitiva, rinchiudendola nella gabbia della fissità critica. Essa è cangiante come il mondo che riflette, come quell’universo post-moderno fatto di frammenti che l’uomo cerca di combinare e ordinare come può.
Ma soprattutto il libro è il luogo di una perenne discussione sul linguaggio, sulla parola, sulla sua capacità di descrivere e afferrare il senso ultimo delle cose. E, sebbene sia difficile che Marco e Kublai alla fine trovino quel “disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti”, essa resta in ogni caso lo strumento privilegiato dall’autore. La parola si fa strada anche nei meandri di un mondo in disordine. E l’autore non si arrende proseguendo la sua ricerca.





Claudia Consoli