"La versione di Barney" di Mordecai Richler


La versione di Barney
di Mordecai Richler
Adelphi, Milano 2005

€ 12.00
pp. 490

Traduzione di M. Codignola

Capita quasi per caso, inaspettatamente e forse per questo ancor più gradito, che un libro da tempo ospite sui nostri scaffali si riveli dopo una lettura iniziata senza poca convinzione un regalo meraviglioso. “La versione di Barney” riposava stanco nella mia libreria accanto ad una pila di romanzi e saggi di cui programmavo a breve la lettura, incuriosita da una storia di cui avevo già sentito parlare – alcuni con pareri entusiastici, altri piuttosto scettici specie per il clamore dall’uscita a breve della trasposizione cinematografica - e forse ancor di più dal mito di quell’autore, Mordecai Richler, che così spesso veniva scambiato con il suo personaggio.
Ecco, appena poche pagine lette e subito mi sono pentita di averlo lasciato ad impolverarsi per tutto quel tempo! E, cosa ancor più improbabile e sorprendente se lo conoscete, sono rimasta totalmente conquistata da quell’ubriacone iracondo di Barney Panofsky che narra la sua “vita allegramente dissipata e profondamente scorretta” senza remore e pudori, tra sbronze colossali, amici decisamente suonati, imprese azzardate, risate, litigate e matrimoni assurdi. Un antieroe dissacrante e un po’ volgare, che non ha dalla sua nemmeno un po’ di fascino maschile a spiegare perché per tutte le 484 pagine del romanzo ci si ritrovi a giustificarlo di ogni suo comportamento scorretto dagli esiti spesso disastrosi, a cui al contrario si finisce per affezionarsi nostro malgrado e soffrire insieme a lui. Ma Barney è così, matto,scorbutico, sboccato e bugiardo (e pure per anni sospettato di omicidio): impossibile da amare ma ancora di più da odiare.
Circondato da personaggi di ogni tipo, si muove goffo tra la Parigi degli anni ’50 (impossibile capire per quale motivo nel film il periodo parigino tra caffè e locali malfamati sia stato sostituito con una Roma che di dissoluto non ha proprio nulla) e Montreal, troppo concreto per fingersi artista e allo stesso modo troppo allergico ad ogni forma di potere stabilito per adattarsi ad una vita borghese. L’immancabile sigaro in bocca - Davidoff o Montecristo -, il bicchiere di whisky sempre pieno, l’ossessione per l’hockey,  Barney non risparmia nessuno dall’establishment culturale dove chiunque può diventare artista di successo, alla mentalità borghese e conformista che condanna tutti gli eccessi e i vizi, ma che dietro la facciata perbenista è ancor più dissoluta. Proprio questa capacità dissacrante e per nulla politically correct è uno dei tratti più interessanti del romanzo che ha consacrato Richler ma che lo ha anche inevitabilmente sovrapposto al suo protagonista, in un continuo gioco di finzione e rimandi autobiografici, non sempre cercati dall’autore.
E poi le donne naturalmente: tre matrimoni scandiscono i tre tempi della vita di Barney negli altrettanti capitoli, tra continue digressioni e rimandi, che compongono il libro. Clara, la svitata prima moglie degli anni parigini, artista incompresa morta suicida (e anche in questo caso neanche farlo apposta Barney è il primo sospettato) che per uno di quegli incomprensibili meccanismi della società finisce col diventare un modello di femminismo. Troppo ingenuo o chissà forse solo affamato d’amore, il povero Panofsky finisce col sposarla per scoprire poco dopo la vera anima di Clara.
Tornato in Canada e avviata una propria casa di produzione cinematografica di volgari film di serie B (più che perfetto il nome “Totally Unnecessary Production”), ecco l’incontro con la seconda signora Panofsky –che poverina non ha neppure un nome!- di famiglia borghese e un po’ superficiale che farà passare non pochi guai al nostro Barney.
Fino all’incontro provvidenziale con Miriam, l’amatissima terza moglie mai dimenticata, conosciuta il giorno del suo secondo matrimonio ed inseguita, corteggiata e desiderata con una devozione totale. La compagna di una vita, con la quale Barney costruisce una famiglia, condivide gli anni più felici della sua esistenza, ma che non risparmi neppure dai suoi attacchi di gelosia, dagli sbalzi di umore, di quel carattere terribile che sarà la sua rovina. Sono pagine bellissime quelle dedicate a Miriam, l’amore profondo che non riesce a superare la separazione, la presenza di una nuova famiglia, una nuova vita. La rabbia per aver distrutto tutto e l’irrimediabilità per il suo gesto sono un peso soffocante che lo rendono ancor più scontroso, misantropo e vizioso. Perchè Miriam è stata l’unica ad amarlo per quello che era e ad accettarlo per questo, e il dolore per la perdita di lei troppo forte da sopportare. Meglio dimenticarlo, così, insieme a tutto il resto che piano piano scivola via nell’oblio dell’Alzheimer e fingere che quell’errore assurdo non ci sia mai stato. Miriam a casa con i bambini lo aspetta, un bicchiere di whisky e i risultati della partita.