Piccola guerra perfetta
Einaudi stile libero, 2011
Il 24 marzo 1999 la Nato attacca la Serbia via cielo per fermare una volte per tutte Milosevic e i serbi che lo sostengono nella sua impresa di pulizia etnica: cacciare gli albanesi dal Kosovo.
Questo scenario internazionale ci è raccontato da Elvira Dones nel suo ultimo romanzo. Nata a Durazzo (Albania) lei non ha vissuto questa guerra perché la vita l’ha portata a vivere altrove, in Svizzera, e negli Usa. Ha scritto molto in albanese, tranne i suoi ultimi libri in italiano, tra cui Piccola guerra perfetta del 2011. Ma ha ascoltato questa guerra come ognuno di noi, attraverso quello che ci viene mostrato alla tv, quello che possiamo leggere, ma forse con più attenzione, sdegno e passione. Poi ha ascoltato quella guerra in maniera più viva, e più vera, venire fuori dal cuore e dalla mente della gente che in mezzo a quelle bombe c’era stata e aveva sentito, aveva urlato, aveva avuto paura. Non solo dei raid aerei, dei bombardamenti nella propria città in macerie, ma aveva avuto paura di andare a prendere l’acqua o di comprare il pane. Già, perché si può morire con una pallottola mentre porti i tuoi bidoni d'acqua, oppure possono venire dei miliziani a caccia di albanesi mentre sei in un forno serbo. A Pristina, nella città in cui sei nato.
Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, nei Balcani tornano a farsi sentire più fortemente le differenze etniche e religiose, nazionalità e nazionalismi, ragioni e pretese territoriali e indipendentiste. Anche il Kosovo vorrebbe la sua indipendenza ma il nazionalismo serbo, che mira a riconquistare le terre dove vivono i serbi, non può accettare tale pretesa e si scatena l’odio verso gli albanesi kosovari ancora più forte quando la Nato inizia i bombardamenti. Stupri, violenze, furti, massacri. Si può venire accusati di essere dei terroristi dell’Uck (Esercito liberazione Kosovo) senza alcuna prova, senza processo, così, in mezzo alla strada, mentre stai cercando di sopravvivere, da un gruppo di uomini armati che ti insultano.
È un libro duro quello della Dones. Stile asciutto, che lascia poco spazio alla letteratura, ma che sapientemente riesce a darne, a volte, all’ironia. Così rimane più vivo, si sentono di più i personaggi, veri, di carne, senza chiedersi le ragioni del conflitto, il perché di tanto odio o magari perché l’uomo continua a odiare in quel modo. Li fa vivere i suoi personaggi, con la loro vita che non lasciano nonostante i bombardamenti e la paura, in mezzo a quelle macerie.
Sono donne soprattutto – studentesse, docenti, ragazzine con una missione così quotidiana e così grande da diventare eroine – e poi ci sono i figli di quei padri dei Balcani che se li vedono morire. E poi c’è chi è all’estero, i parenti, quelli che se ne sono andati e che vedono la guerra alla tv e cercano di aiutare i profughi kosovari che si rifugiano in Europa.
Il romanzo è diviso in capitoli che scandiscono il tempo della guerra e capitoli approfondiscono la vita, il dolore e le vicende di alcuni personaggi che abbiamo incontrato nella storia e che reicontreremo, magari morti o scomparsi, nel cuore e nel ricordo di una figlia, moglie, parente.
Perché la cosa più importante non è tanto chiedersi “perché”, ma ricordare tutto ciò, avere il modo di raccontarlo e sapere come raccontarlo. Non per il gusto, ma per il dovere.
Ricordatelo, si dice, perché tante cose succederanno, e forse un giorno qualcuno ti domanderà – forse un figlio tuo che avrai con Art o con chissà chi -, ti domanderà appunto: com’era il primo, il secondo giorno di guerra, il terzo giorno, com’erano? I primi giorni devono essere speciali, prima che lo speciale diventi banale e morte e solitudine non contino più nulla. Ricordatelo, e aspira dalla sigaretta schifosa senza tossire […]
Fabio Mercanti
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